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Gianni Bertini, «Du bon Bertini», 1965

Courtesy M77 Gallery

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Gianni Bertini, «Du bon Bertini», 1965

Courtesy M77 Gallery

Dalla Mec-Art alla cultura borghese: le traiettorie di Bertini

Alla M77 Gallery una grande mostra, curata da Nicolas Bourriaud, riscopre l’opera di uno dei protagonisti della seconda metà del Novecento

Ada Masoero

Giornalista e critico d’arte Leggi i suoi articoli

Parigi, 1965: il vulcanico critico Pierre Restany, che nel 1960 aveva fondato il Nouveau Réalisme, redige il «Manifesto della Mec- Art» (Mechanical Art), in cui propone idee radicalmente nuove sulla funzione sociale e comunicativa dell’arte e respinge i principi del genio creatore e del valore dell’esemplare unico in pittura, da cui scaturisce l’immagine dell’artista come di un osservatore neutrale della realtà del suo tempo. Fra coloro che aderirono al dettato di quel Manifesto, e che adottarono la tecnica meccanica rifiutando colori e pennello e sostituendoli con tela fotosensibile e tecniche fotografiche di produzione, c’era più d’un italiano, da Gianni Bertini a Bruno Di Bello, da Elio Mariani a Mimmo Rotella e Aldo Tagliaferro.

 

 

 

Gianni Bertini, «La rivolta», 1979. Courtesy M77 Gallery

A Gianni Bertini (1922-2010), matematico e artista visivo, la milanese M77 Gallery che, oltre a rappresentare figure di primo piano ha posto fra i suoi obiettivi anche la rivalutazione di artisti italiani del dopoguerra finiti in un cono d’ombra a dispetto del loro valore, dedica sino al 27 settembre la mostra, ricca di oltre 50 opere, intitolata «Gianni Bertini: Manifesto Meccanico» e curata dal teorico e critico francese Nicolas Bourriaud, che ha voluto porre l’accento sulle opere di Mec-Art da lui realizzate tra il 1965 e il 1970. In esse Bertini si appropria delle fotografie dei giornali di larga tiratura e vi interviene in modo da controllare ogni passo dell’elaborazione meccanica delle immagini, per riportarle poi (già dal 1963, prima ancora dell’uscita del Manifesto) su tela emulsionata, cartoncino o metallo, e sovrapporvi interventi pittorici che le alterano e le risignificano (qui la specificità del movimento europeo rispetto alla contemporanea Pop Art americana): interventi pittorici che sarebbero andati rarefacendosi nel tempo, fino a sfociare, negli anni ’80, in un linguaggio che puntava soprattutto a sbeffeggiare la cultura borghese. Solo dalla metà di quel decennio Bertini sarebbe tornato ai toni ironici dei primi tempi, nutriti della contaminazione fra la pittura e la riproduzione moltiplicata grafica e fotografica, vero nucleo della sua ricerca, come spiegava lui stesso in un testo del 1968: «Il valore commerciale di un quadro, affermava, è sempre stato connesso a quell’interesse culturale e feticistico che i più attribuivano ad una certa opera. Quindi il proprietario di un’opera non ha mai posseduto niente altro che un semplice rettangolo colorato ... [perché è] la progettazione, il susseguirsi delle operazioni da effettuare, il discriminare l’impiego delle macchine e degli strumenti [ciò che] costituisce “l’originale” dell’opera».

Ada Masoero, 11 giugno 2025 | © Riproduzione riservata

Dalla Mec-Art alla cultura borghese: le traiettorie di Bertini | Ada Masoero

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