Veduta della mostra «Facile ironia. L’ironia nell’arte italiana tra XX e XXI secolo»

Foto di Carlo Favero Alighiero Boetti © by Siae 2025, Bruno Munari

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Veduta della mostra «Facile ironia. L’ironia nell’arte italiana tra XX e XXI secolo»

Foto di Carlo Favero Alighiero Boetti © by Siae 2025, Bruno Munari

Matteo Bergamini

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Quel che succede a Bologna durante il fine settimana di Arte Fiera ha qualcosa di immanente: un rapporto di reciprocità indissolubile sembra avvolgere la città intera insieme a tutti i suoi operatori culturali, per mettere in pratica la proverbiale ospitalità emiliana: aprire le proprie dimore e cercare di offrire il meglio. Cercando, chiaramente, di essere migliori (e più simpatici) dei propri vicini. Il risultato, in questi ultimi tredici anni, con una spinta propulsiva arrivata decisamente più palpabile nell’ultimo lustro, è stata Art City, l’ottimo programma collaterale della fiera che, in alcune edizioni, è riuscito ad oscurare la stessa kermesse, giunta quest’anno alla sua 48ma edizione. Succede però che a volte, nella volontà di fare, si esageri un po’: il risultato di Art City, quest’anno, è infatti un’infilata pressoché infinita di eventi, mostre brevissime o più durature, presentazioni e affini, per un comunicato stampa che (arrivato completo solo pochissimi giorni fa) contava qualcosa come trenta pagine di informazioni, date, orari e indirizzi.  «Facile Ironia» è senza dubbio la mostra con la «M» maiuscola in questo inverno bolognese. E nonostante l’austerity che avvolge i musei italiani, MAMbo incluso, Lorenzo Balbi (con l’allestimento di Filippo Bisagni, richiamando i volumi di Aldo Rossi e l’originale progetto per la Sala delle Ciminiere del museo) ha fatto centro proprio a partire dal tema. Cosa di meglio di qualche sorriso, infatti, per allentare la tensione in un’epoca stanca e demotivata, anche stando agli ultimi risvolti politici che annebbiano il futuro della fiscalità, e dunque del mercato dell’arte, e che non lasciano sperare in nuove e rosee prospettive? Lorenzo Balbi e Caterina Molteni con il loro progetto, e con il colore gettato da Bisagni a 360 gradi, hanno creato un manifesto ideale contro l’afasia e, allo stesso tempo, hanno rimesso in scena capolavori di ieri e di oggi con un grande appeal che, siamo quasi certi, attrarrà anche quel pubblico più digiuno di contemporaneo. 

 

 

 

 

«Have you seen me before?» (2008) di Paola Pivi. Cortesia di Fondazione Sandretto Re Rebaudengo

«Mozzarella in carrozza» di Gino De Dominicis (1968-1970). Collezione Cattelani. Cortesia di Fondazione Tomassoni Archivio Gino De Dominicis, BySIAE 2025

Una mostra senza pecche? Volendo cercare l’ago nel pagliaio, si potrebbe disquisire sulla presenza di alcuni autori che forse più che ironici potevano essere inclusi nella categoria del «graffiante»: Ketty La Rocca, Lucia Marcucci, Mirella Bentivoglio, Carla Accardi, Vincenzo Agnetti o anche Luigi Ontani, ma d’altronde nell’epoca del relativismo sfrenato le eccezioni sono all’ordine del giorno. Il direttore del MAMbo, però, anche con l’aiuto di una serie di ottimi saggi contenuti in catalogo, ben riesce a contestualizzare autori e appartenenze, creando un percorso che si apre «museale» e iconico come non mai, con la «Mozzarella in carrozza», 1968-70) di Gino De Dominicis, passando per uno dei celebri orsi dalle piume di canarino di Paola Pivi «Have you seen me before?», 2008, e spaziando nell’indagine dagli esperimenti e le rivoluzioni del linguaggio messi in atto dalla Poesia visiva, fino alle ultime vicende del contemporaneo, dal «Lavoretto» di Giuseppe De Mattia (2021), ritratto della condizione contemporanea dell’artista mid-career, fino al «Copycat» di Eva e Franco Mattes (2024), vero e proprio gatto tassidermizzato sdraiato sullo scanner di una fotocopiatrice. Il paradosso, l’assurdo e la serietà del gioco si mettono in mostra nelle più svariate accezioni e, anche, l’ironia indagata come «genius loci» prettamente italiano: d’altronde siamo o non siamo il Paese della Commedia dell’Arte? «Facile Ironia», così, si rivela probabilmente la mostra meno facile dell’infinita lista di Art City, densa di stratificazioni che riverberano potentissime sul nostro tempo. E cosa rimane da fare, si chiede la co-curatrice, Carolina Molteni, nel suo saggio? «Sembra che una possibile risposta stia nella risata stessa, quella che nasce da una reattività istintiva e genera una vitalità nuova». Un auspicio vero e proprio per questa mostra che occuperà gli spazi del MAMbo fino al prossimo settembre, e per il futuro del sistema dell’arte della Penisola.

 

«On the edge ( Sulla cresta dell’onda)» (2000) di Piero Golia. Cortesia dell’artista

Tra le protagoniste di «Facile Ironia» c’è anche la fotografa milanese Alessadra Spranzi (1962) che però ritroviamo anche in un progetto che cambia completamente registro e tutto ha a che fare con la riflessione sulla natura dell’immagine a Casa Morandi, in via Fondazza 44, nel celebre appartamento dove il pittore bolognese abitò tutta la vita. Qui, Spranzi, ispirata dalla pratica morandiana e dalle sue tipiche variazioni minime di luce, di colore, del punto focale, così come dalle stesse disposizioni degli oggetti che componevano le Nature Morte del pittore, crea una serie a partire dalla visione di una pagina strappata di un libro edito da Hoepli dedicato all’artista, ingaggiando con l’immagine una vera e propria «discussione» intorno ai minimi comuni denominatori che compongono la fotografia, dall’inquadratura all’esposizione: «Il quale cerca solamente la sua bellezza, nel modo qui descritto», a cura dello stesso Lorenzo Balbi, si pone così come una sorta di esercizio del pensiero, dove le immagini della serie «Sul tavolo #80» (2014-2024) prima ancora che retiniche solleticano il pensiero e ricordano le teorie di Merleau-Ponty dedicate a Cézanne e a quella «carne del mondo» a cui appartiene anche la sottile polvere morandiana.



 

«Sul tavolo #80» di Alessandra Spranzi (2014-24). Cortesia dell’artista e della Galleria P420, Bologna

A proposito di polvere, a pochi metri dal MAMbo, da CAR di Davide Rosi degli Esposti, è in scena la personale di Emanuele Becheri (1973), «Opere». Due piccoli disegni e una serie di terrecotte «impolverate», come scrive lo stesso artista nel testo che accompagna la mostra, «nel tentativo di incorporare la pittura alla scultura, come avviene nella tecnica del vero fresco dove il colore non è superficiale ma letteralmente pietrificato». Una curiosa riflessione sulla compenetrazione tra scultura e disegno, e viceversa, in una serie di «visioni» che sintetizzano forme e allo stesso tempo lasciano aperto tutto il campo a movimento di torsioni e «impressioni», richiamando Brancusi, Marino Marini e omaggiando Frans Hals.

«Coppia» (2024) di Emanuele Becheri. Cortesia di CAR Gallery

Dai fantasmi del segno di Becheri, invece, si passa alla muscolarità dell’ambiente «Torri:Terra» creato da Gilberto Zorio (1944) e Grazia Toderi (1963) per l’Oratorio di San Filippo Neri, con la curatela di Gianfranco Maraniello e Cristina Francucci. «La rivelazione di una stupefacente cosmologia, nella corrispondenza di orbite che tengono in equilibrio la contingenza dell’umano e l’aspirazione a un esaltante infinito», come scrive Maraniello, sono dati dagli elementi di due torri a stella scomposte di Zorio e dalla proiezione di un radar-cielo di Toderi, riportando alla memoria anche la grande installazione «Torre Stella Bologna», che lo stesso Zorio realizzò nella sala delle Ciminiere del MAMbo nel 2009-10: un imponente intervento architettonico a torre con pianta a cinque punte che, simile a una fortezza, svettava nell'iconico spazio di quello che allora era il nuovo museo della città.

Installation view dell’ambiente «Torri:Terra» creato da Gilberto Zorio e Grazia Toderi. Foto di Nicola Gnesi

A chiudere, un’ulteriore tappa che tanto ha a che fare con l’identità di Bologna: «Corpo Eterico» di Christian Fogarolli (1983), a cura di Pier Paolo Pancotto, al Museo Davia Bargellini. Per chi non lo sapesse, il Davia Bargellini (in Strada Maggiore) è una raccolta di arti applicate, oggetti rari, curiosità appartamenti al filone arte-industria, in sette sale arredate in stile ’700 bolognese. A questi ingredienti Fogarolli aggiunge una serie di produzioni create ad hoc per l’occasione che riflettono proprio sul museo e la sua collezione: alambicchi e sculture antropomorfe in marmo bianco iniettate di liquidi curativi; lampade UV e  lo splendido tributo in vetro e inchiostro a quella «Natura Morta di carne umana» che è «La zattera della Medusa» di Théodore Géricault; la riproduzione sonora della risonanza magnetica del cervello dell’artista e il profumo di cera della scultura «Portrait de frêne» diffusi nell’atmosfera donano al Davia Bargellini un lampo contemporaneo che riverbera nel tempo cristallizzato. Un po’ come il fine settimana dilatato di Art City e Arte Fiera ripercuote le sorti intellettuali della città emiliana, da anni «abbioccata» (come si dice da queste parti) dopo le abbuffate tipiche dell’altra sua arte, quella culinaria.

Matteo Bergamini, 08 febbraio 2025 | © Riproduzione riservata

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