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Una veduta della mostra «No Room for Emptiness» di Diane Dal-Pra da Massimodecarlo

Foto: Roberto Marossi. Per gentile concessione: Massimodecarlo

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Una veduta della mostra «No Room for Emptiness» di Diane Dal-Pra da Massimodecarlo

Foto: Roberto Marossi. Per gentile concessione: Massimodecarlo

Diane Dal-Pra e la capacità degli oggetti di diventare testimoni

Da Massimodecarlo l’artista francese invita l’osservatore a riflettere sul significato profondo che attribuiamo alle cose, elevate a presenza paritaria rispetto alle forme viventi, enigmatiche e sfuggenti

Diane Dal-Pra (Périgueux, 1991, vive e lavora a Parigi) dipinge figure sfuggenti che sembrano emergere da un sogno, abitanti enigmatici di uno spazio indefinito tra corpo e oggetto. Nei suoi dipinti, corpi scultorei e oggetti quotidiani si fondono, dando vita a immagini sospese e cariche di mistero, in cui l’identità personale si intreccia delicatamente alla realtà materiale. Con una pittura raffinata che evoca l’eleganza tecnica dei primi maestri rinascimentali, Dal-Pra invita l’osservatore a riflettere sul significato profondo che attribuiamo alle cose, silenziose compagne della nostra vita quotidiana.

Le opere di Dal-Pra sono incluse nelle collezioni dell’Hirshhorn Museum and Sculpture Garden di Washington, dell’Hem Museum di Foshan, dello Yuz Museum di Shanghai, della Fondation Louis Vuitton di Parigi, della Fondation Lafayette Anticipations di Parigi e dell’Ica Miami di Miami. L’abbiamo intervistata in occasione della sua prima personale in Italia, intitolata «No Room for Emptiness», in corso da Massimodecarlo, a Milano, fino al 22 marzo.

Le tue opere sembrano vivere in uno stato costante di divenire. I titoli che scegli («Eternal Interval», «Echoes of Patience», «From Solid to Gaseous», 2024) evocano narrazioni enigmatiche, lasciando intuire una trasformazione silenziosa: corpi che si dissolvono lentamente, tessuti che si trasformano in paesaggi misteriosi. Sulla tela tutto appare in mutamento e nulla è come sembra: le forme sembrano sfuggire intenzionalmente allo sguardo dell’osservatore, giocando con il suo desiderio di comprenderle e muovendosi agilmente sul confine tra astrazione e figurazione. Questo equilibrio instabile è forse l’aspetto più affascinante e riconoscibile della tua pratica. Cosa ti attrae di questa tensione tra presenza e dissoluzione?
Il mio interesse è oggi più che mai focalizzato sull’estetica e l’energia che accompagnano i momenti di transizione e passaggio. Le nostre storie personali sono scandite da istanti di trasformazione da uno stato all’altro. Indipendentemente dalla loro importanza, dal tempo in cui si verificano o dalle circostanze in cui avvengono, sono questi momenti di equilibrio a radicarci nei meccanismi della vita e nell’esperienza sensoriale. Nella mia esperienza personale poi, insonnia, torpore e il passaggio dalla veglia al sonno sono stati, fino ad oggi, un tema particolarmente stimolante da esplorare, mettendo in discussione la consistenza di questi stati latenti, questi momenti di transizione.

Momenti di transizione che sembrano aprire la porta verso un’altra dimensione: consentono di guardare il mondo e noi stessi da una prospettiva diversa, quasi esterna, così gli oggetti di cui ci circondiamo diventano in qualche modo i testimoni silenziosi di questo passaggio.
Credo che gli oggetti e il mondo materiale circostante diventino il mezzo attraverso cui vivere queste esperienze. Ciò che trovo particolarmente interessante è l’uso di ciò che è percepibile, il mondo fisico, per far emergere altre realtà della coscienza, quelle impercettibili. La narrazione, nella sua dimensione più poetica, spesso risiede in ciò che rimane da vedere. Per esempio, per descrivere una tempesta violenta, potrei scegliere di dipingere la scena stessa della tempesta, con la pioggia battente, oppure potrei rappresentare il momento successivo, in cui i rami giacciono a terra ancora umidi nel silenzio che segue. Questo momento allora accoglie ciò che è accaduto, lo tiene in sospensione mentre suggerisce ciò che verrà dopo.

Diane Dal-Pra, «No Room for Emptiness», 2024. Courtesy of the artist and Massimodecarlo

C’è qualcosa di profondamente sensoriale nelle tue opere, come se l’esperienza del sentire fosse più reale e autentica della materia stessa. È come se la soggettività, che tendiamo a pensare esclusivamente umana, si rivelasse invece condivisa anche dalle cose che ci circondano. Quanto e come influisce questo aspetto nelle tue composizioni? Come prendono forma i tuoi dipinti?
Faccio molti schizzi, prendo appunti, raccolgo immagini e parole. A volte si formano connessioni e il significato emerge, altre volte devo accettare che tutto rimanga indefinito. Inizio a dipingere una tela quando sento che la sua composizione e il suo messaggio sono allineati. Do un titolo solo una volta che il dipinto è terminato. Cerco di non dipingere partendo da una fotografia o da un modello e di non cedere alla tentazione di una riproduzione esatta della realtà. Rispetto al mio soggetto, la trappola che cerco di evitare è quella di una riproduzione ben eseguita ma chiusa a possibili strade formali alternative. Preferisco dipingere a partire dai miei ricordi, perché le distorsioni che il tempo e l’oblio imprimono alle forme alimentano le stranezze visive che servono al mio scopo.

Nella tua ultima mostra da Massimodecarlo a Milano, «No Room for Emptiness», il tessuto assume un ruolo centrale, quasi simbolico. Il testo che accompagna l’esposizione cita «La piega. Leibniz e il barocco» del filosofo francese Deleuze, dove la realtà appare come una sequenza infinita di pieghe che non raggiungono mai una forma definitiva, oscillando continuamente tra visibile e invisibile, materia e spirito. Quando hai iniziato a esplorare questo concetto della piega nel tuo lavoro? E come questa idea è arrivata a occupare una posizione così importante nella tua pratica artistica?
Ciò che mi interessa particolarmente nell’estetica dei tessuti è la loro materialità e la loro ambivalenza. Quando drappeggio qualcosa, lo rendo ancora più visibile attraverso il suo occultamento. La poetica della piega mi affascina profondamente. Essa crea una cavità, un’intimità, la possibilità di un interno e di un esterno. È un territorio incavato, un varco, uno spazio accogliente che può dispiegarsi. La piega è la metafora stessa dell’interstizio, offrendo la possibilità di sottrarsi al presente. Si racconta che il pittore fiammingo Albrecht Dürer, al risveglio, cercasse tra le pieghe delle sue lenzuola per assicurarsi che non vi fossero rimasti pezzi di sogni. L’immagine è al tempo stesso poetica ed eloquente. Le pieghe trattengono e assorbono ciò che coprono.

Un’immagine che suggerisce come il tempo possa essere trattenuto, ripiegato e, magari, all’occasione anche riaperto. Deleuze, invece, vede il tempo come un flusso ininterrotto, una trasformazione perpetua, senza punti fissi… 
Apprezzo molto l’idea di Deleuze della trasformazione perpetua. In un certo senso, è al centro della mia ossessione, e la pittura è il mio strumento per cercare di comprenderla meglio, questa ossessione per le temporalità e la necessità di trovare modi per dilatarle. La pratica della pittura mi permette di farlo. Prendere in mano un pennello significa concedermi il diritto di sottrarmi al flusso per diverse ore. In realtà, la pittura è la possibilità della piega; sfuggire a ciò che accade in superficie e prendersi il tempo per perdersi al suo interno.

Parli del pennello quasi come di una porta di accesso. È una visione che si lega profondamente al modo in cui gli oggetti abitano la tua opera, assumendo una presenza paritaria rispetto alle forme viventi. Quale ruolo attribuisci agli oggetti nel tuo lavoro e nella tua vita? E in che cosa consiste, secondo te, la loro autonomia, la loro memoria?
Sviluppo facilmente comportamenti ritualistici con gli oggetti, in un modo che è molto vicino alla superstizione. Ho sempre avuto una memoria visiva molto forte per luoghi e oggetti, associandoli a momenti, come attori sullo sfondo del teatro della mia vita. Ciò che mi tocca degli oggetti è la loro capacità di assorbire ciò che proiettiamo su di loro, di diventare testimoni. Il designer Andrea Branzi ha lavorato meravigliosamente su questa idea degli oggetti come supporti di proiezione che ci accompagnano. Diceva: «Gli oggetti sono al centro della vita contemporanea; riflettono la nostra condizione. Gli oggetti sono realtà sempre in movimento. Possiamo acquistarli, ma è raro che possiamo davvero reclamarli come nostri. C’è sempre qualcosa che ci supera, qualcosa che non abbiamo immaginato, e un giorno vorrà significare qualcosa». Gli oggetti rimangono indipendenti da noi e diventano le terre desolate e pacifiche dei nostri passaggi agitati.

Una veduta della mostra «No Room for Emptiness» di Diane Dal-Pra da Massimodecarlo. Foto: Roberto Marossi. Per gentile concessione: Massimodecarlo

Giorgia Aprosio, 19 marzo 2025 | © Riproduzione riservata

Diane Dal-Pra e la capacità degli oggetti di diventare testimoni | Giorgia Aprosio

Diane Dal-Pra e la capacità degli oggetti di diventare testimoni | Giorgia Aprosio