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Angelica Kaufmann
Leggi i suoi articoliDiane Keaton rappresenta un caso unico di continuità e trasformazione, un punto di svolta nella storia del cinema come linguaggio sociale. Ha trasformato l’imperfezione in stile, la goffaggine in linguaggio, l’autenticità in gesto politico. La sua filmografia, lunga più di mezzo secolo, attraversa mutamenti profondi nella rappresentazione del femminile, nel linguaggio della commedia romantica e nel rapporto tra identità personale e performance attoriale. Analizzare Keaton significa, in larga parte, interrogarsi su come Hollywood abbia imparato -attraverso di lei- a mettere in scena la complessità delle donne contemporanee, senza ridurle a tipologie o funzioni narrative. Keaton si afferma in un periodo di transizione: tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta, quando la “New Hollywood” mette in discussione i codici tradizionali del racconto. La sua collaborazione con Woody Allen diventa il luogo di una sperimentazione linguistica e di una ridefinizione della figura femminile nella commedia. In film come Sleeper (1973), Love and Death (1975) e soprattutto Annie Hall (1977), Keaton costruisce un modello di personaggio che unisce intelligenza, ironia e vulnerabilità, spostando l’asse del racconto da una figura maschile nevrotica a un dialogo autentico tra due soggettività.
Annie Hall è, in questo senso, un testo fondativo. La protagonista è una figura semi-autobiografica che incarna l’emergere di un soggetto femminile autonomo nel linguaggio cinematografico. Non è più la “musa” o la controparte del protagonista maschile, ma una presenza attiva, contraddittoria, capace di riflettere sul proprio ruolo e di incarnare un femminile non idealizzato. Lo stile personale di Keaton -l’abbigliamento androgino, la gestualità nervosa, l’imbarazzo disarmante- diventa parte integrante del discorso filmico: un linguaggio del corpo che sostituisce la costruzione glamour delle attrici classiche con una forma di autenticità e di imperfezione deliberata. Negli anni Ottanta Keaton si emancipa dal sistema della commedia autoriale per affrontare territori più esplicitamente politici ed emotivi. In Reds (1981), diretta da Warren Beatty, interpreta Louise Bryant, figura femminista e radicale, la cui tensione tra vita privata e impegno politico riflette quella tra intimità e storia che percorre molta parte del suo lavoro. È una performance in cui l’attrice affronta il dramma non come deviazione dal proprio registro comico, ma come approfondimento del proprio linguaggio espressivo. Negli anni seguenti, film come Marvin’s Room (1996) e The Good Mother (1988) confermano questa capacità di trasformare la vulnerabilità in strumento analitico: Keaton esplora la maternità, la perdita, la responsabilità e la malattia con una sensibilità antiretorica, distante dal melodramma classico. In queste opere la dimensione affettiva diventa spazio politico: una riflessione sulla cura, sul tempo e sul corpo femminile in età adulta, raramente rappresentato con tanta complessità nel cinema mainstream. A partire dagli anni Novanta e Duemila, Keaton torna alla commedia, ma con uno spostamento di prospettiva radicale. Film come Baby Boom (1987), The First Wives Club (1996) e Something’s Gotta Give (2003) reinventano il genere in chiave postfemminista: la protagonista non è più alla ricerca di un partner come fine ultimo, ma di un equilibrio identitario e affettivo. In Something’s Gotta Give, in particolare, Keaton interpreta una scrittrice sessantenne che si innamora, soffre e desidera, ma resta padrona della propria narrazione. È un caso raro di rappresentazione erotica e sentimentale della donna matura, e uno dei pochi esempi in cui Hollywood concede al corpo femminile oltre la mezza età una visibilità non marginale.
L'immagine pubblica della Keaton, l’uso ironico dell’eccentricità, il rifiuto del conformismo estetico, la scelta di non sposarsi, la libertà di raccontare sé stessa attraverso autobiografie e interviste, ha generato un immaginario di autonomia femminile non militante ma profondamente etico. Keaton ha dimostrato che l’autenticità, nel cinema come nella vita, può essere una forma di resistenza ai modelli dominanti di genere e di bellezza. Il suo stile recitativo, basato su pause, esitazioni e improvvise aperture emotive, ha influenzato generazioni di attrici, da Greta Gerwig a Emma Stone, da Frances McDormand a Kristen Wiig. La sua capacità di incarnare personaggi complessi senza mai perdere leggerezza ha ridefinito l’idea stessa di “commedia sofisticata” americana, facendone uno spazio di riflessione sull’identità più che di semplice evasione
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