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Cecilia Paccagnella
Leggi i suoi articoliNel quartiere a nord di Central Park, a New York, sin dal 1968 è attivo un centro culturale che sostiene la comunità creativa locale. Con la prima sede al 2033 di Fifth Avenue, lo Studio Museum di Harlem è stato fondato da un gruppo di artisti, attivisti e filantropi per far fronte all’esclusione degli artisti di origine africana dai musei, dalle gallerie d’arte, dalle istituzioni accademiche e dalle pubblicazioni scientifiche, in un clima di fermento come quello che ha contraddistinto gli anni Sessanta.
Nel 1982, invece, il museo si è spostato al 144 West 125th Street, in un vecchio edificio commerciale adattato alle esigenze espositive dall’architetto J. Max Bond. Ora, dopo sette anni di lavori di ristrutturazione, è pronto a riaprire al pubblico con una veste rinnovata.
La nuova struttura (25mila metri quadrati in sette piani), progettata dallo studio di architettura Adjaye Associates, sarà inaugurata il 15 novembre: per la prima volta, nei suoi 57 anni di storia, lo Studio Museum avrà una casa costruita su misura.
Il progetto, finanziato con più di 300 milioni di dollari raccolti tramite un’apposita campagna (alla quale hanno partecipato la Giunta amministrativa della Città di New York, donatori privati, fondazioni e partner aziendali), ha condotto all’ampliamento degli spazi dedicati alle mostre temporanee, rispondenti alle esigenze più contemporanee di esporre opere bidimensionali e tridimensionali, che forniranno un quadro sempre aggiornato a completamento e integrazione dell’esposizione permanente, in cui saranno allestite opere della collezione del museo (circa 9mila pezzi datati dal 1800 ai giorni nostri).
Tom Lloyd, «Narokan», 1965, Harlem, Studio Museum. Photo: John Berens
Concepito per inserirsi al meglio nel contesto artistico e culturale del quartiere, il nuovo Studio Museum trae ispirazione dalle chiese, dai palcoscenici, dalle strade affollate e dalle scalinate in mattoni rossi, tipici di Harlem. Un collage di volumi sovrapposti in calcestruzzo e vetro costituisce l’architettura esterna, attraverso la quale è possibile intravedere l’interno, per un dialogo con l’ambiente circostante. Al piano terra, ad esempio, una finestra a doppia altezza crea un legame tra la strada e il museo, come a voler sottolineare la vocazione da luogo d’incontro, socializzazione e connessione. Una terrazza sul tetto, infine, firmata dallo studio di progettazione paesaggistica Studio Zewde, offre una vista panoramica.
Come simbolo di rinascita, ad aprire le porte della nuova sede sarà Tom Lloyd (New York, 1929-96), protagonista della prima mostra che celebrò l’istituzione del museo nel 1968. Al suo fianco, alcune installazioni della collezione permanente (inizialmente esposte a rotazione), fotografie d’archivio e cimeli che ripercorreranno mezzo secolo di attività e di oltre cento artisti ospiti del programma «Artist-in-Residence». Per il prossimo anno, inoltre, nuove commissioni site specific di Camille Norment, Christopher Myers e Kapwani Kiwanga andranno ad affiancare i lavori già esistenti di David Hammons, Glenn Ligon e Houston E. Conwill.
«Sono entusiasta che la nostra riapertura ci offra l’opportunità di celebrare quegli artisti il cui lavoro ha plasmato a lungo l’eredità dello Studio Museum, sostenendo al contempo le nuove voci che stanno ridefinendo l'arte del nostro tempo, ha dichiarato la capocuratrice Thelma Golden. Questo momento è profondamente radicato nella visione collettiva dei nostri fondatori, le cui aspirazioni continuano a ispirarci. Mentre compiamo questo passo storico, non vedo l’ora di dare il benvenuto alle nostre comunità in un museo trasformato, dove continueremo il lavoro che ci definisce su una scala che riflette la grandezza della nostra missione».
Sulla facciata sventolerà la bandiera nera, rossa e verde dell’artista afroamericano David Hammons: «Untitled» (2004) si ispira alla bandiera panafricana e dalla sua realizzazione funge da emblema del museo e della sua missione. Nella hall, invece, sarà appesa «Give Us a Poem» (2007) di Glenn Ligon (New York, 1960), un’installazione neon composta dalle parole «me» e «we» (io e voi), che riprende una poesia improvvisata del pugile Muhammad Ali.
David Hammons, «Untitled», 2004, Harlem, Studio Museum. Photo: Ray Llanos
Glenn Ligon, «Give Us a Poem», 2007, Harlem, Studio Museum. © Glenn Ligon; Courtesy the artist, Hauser & Wirth and Thomas Dane Gallery. Photo: Farzad Owrang
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