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E Dio creò la musa: Brigitte Bardot nella sublimazione artistica novecentesca

La Pop Art americana la sfiora senza carezze, l’Europa la prende con più pudore. Gerald Laing la ritrae tra il 1962 e il 1963 trasformandola in una delle immagini più iconiche della Pop Art inglese. L’opera nasce da una fotografia in bianco e nero dell’attrice, usata per il modulo di iscrizione alla mostra Young Contemporaries del 1963

Germano D’Acquisto

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Brigitte Bardot è morta oggi, e come spesso accade ai miti veri, la notizia non chiude una storia: la spalanca. Perché B.B., oltre a una carriera, ha lasciato un’immagine operativa, un corpo visivo che per sessant’anni l’arte ha usato, consumato, sezionato, moltiplicato. Non solo una musa nel senso romantico del termine, ma un dispositivo iconografico. Un’immagine che si lasciava guardare ma non possedere, come certi ricordi che non tornano mai uguali. Una forma. Un problema. Non chiamatela musa: la parola è troppo educata. Bardot è stata un malinteso felice, un corpo che il mondo ha creduto di capire e che l’arte ha continuato a fraintendere con amore.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, mentre il cinema la fissa per sempre giovane grazie a film come Et Dieu… créa la femme di Roger Vadim o Il disprezzo di Jean-Luc Godard, l’arte capisce che quella giovinezza è una trappola meravigliosa. Andy Warhol la guarda come si guarda una cosa preziosa sapendo che presto verrà usata, anzi consumata. Warhol intuisce prima degli altri che non è solo un personaggio: è un sistema visivo autosufficiente. Il suo volto regge la serialità senza perdere intensità, anzi. Più viene ripetuto, più diventa leggero. Dove Marilyn si consuma, Bardot si distribuisce. È pura superficie, ma non nel senso banale del termine: superficie come luogo di passaggio, come campo elettrico. Il suo erotismo non chiede empatia, non chiede salvezza. Sta. Diventa colore, ripetizione, ritmo. Non un volto, ma un battito.

La Pop Art americana la sfiora senza carezze, l’Europa la prende con più pudore. Gerald Laing la ritrae tra il 1962 e il 1963 trasformandola in una delle immagini più iconiche della Pop Art inglese. L’opera nasce da una fotografia in bianco e nero dell’attrice, usata per il modulo di iscrizione alla mostra Young Contemporaries del 1963. Laing, che paragonava la notorietà di icone moderne come Marilyn o Elvis Presley alla centralità di figure religiose come San Sebastiano nel Medioevo, decide di appropriarsi del design grafico del volantino, compreso quel cerchio nero che taglia il volto di Brigitte come una nota stonata perfetta. Curiosità da manuale: quando era ancora studente alla St Martin’s School of Art, Laing vendette il dipinto per circa 40 sterline. Nel 2014, la stessa opera è stata battuta da Christie’s a 902.500 sterline. Anche i malintesi, a volte, maturano bene.

In Italia, Mimmo Rotella la strappa dai muri, sì, ma con la delicatezza di chi sa che anche uno strappo può essere un gesto d’affetto. Bardot diventa carta, colla, ferita lieve. Una bellezza che accetta di rovinarsi. La fotografia, invece, la tratta con una dolce crudeltà. Con Richard Avedon succede qualcosa di diverso, quasi impercettibile, come un cambio di temperatura nella stanza. Avedon non la guarda come si guarda un’icona, ma come si guarda qualcuno che sta per sottrarsi. Nel ritratto del 1959 non c’è compiacimento né trionfo: B.B. non è la donna più desiderata del mondo, è una figura in bilico, leggermente altrove. Il fondo neutro diventa un vuoto protettivo. Non serve scenografia, non serve contesto. Avedon non la fissa: le lascia spazio. Un gesto radicale per una donna continuamente invasa dagli sguardi. È la dolcezza che si riserva alle cose che si rompono se le stringi troppo. Avedon fotografa non ciò che il mondo vedeva, ma ciò che stava per sparire: non la diva, ma la possibilità della sua assenza.

Arrivano quindi Douglas Kirkland, David Bailey, Tazio Secchiaroli, Willy Rizzo, Léonard de Raemy e Bert Stern. Stern, autore degli ultimi ritratti leggendari di Marilyn, la fotografa più volte all’inizio degli anni Sessanta. Tra i lavori più intensi c’è quello del 1962 in Messico, asciutto e quasi sospeso. Il paparazzo Ron Galella, invece, la racconta lontano dai set. Celebre lo scatto del 1968 a Saint-Tropez: una gelatin silver print che cattura un momento quasi privato, sullo sfondo rilassato della Riviera francese, il luogo dove Brigitte aveva costruito la propria leggenda mescolando personaggio pubblico e vita privata. Qui l’immagine diventa un ponte tra due mondi: il mito e la quotidianità.

E poi c’è Terry O’Neill, che la sorprende in una dimensione ancora diversa, quasi affettiva. Siamo all’inizio degli anni Settanta. Bardot è ovunque, fotografata da chiunque, osservata da tutti. O’Neill non vuole smontare i miti né metterli in crisi: vuole stare nel momento, coglierne l’aria, l’umore, la temperatura emotiva. Il celebre ritratto del 1971 nasce sul set del film Le pistolere, diretto da Christian-Jaque in Spagna. Bardot non interpreta se stessa: è semplicemente lì, con una sigaretta in bocca. Sembra assorta. O’Neill non ruba lo scatto, aspetta che l’immagine si conceda. Come se il mito, per un attimo, si fosse seduto a riposare.

Poi la star si ritira davvero. Sparisce. Chiude le porte, abbassa le tapparelle. Ma l’arte, come spesso accade, continua a bussare. Non per nostalgia, ma per abitudine. La sua immagine entra in una fase nuova, più silenziosa, più concettuale. Negli anni Ottanta e Novanta, Bettina Rheims lavora esplicitamente sull’eredità Bardot: non la ritrae, la rielabora. Una femminilità vulnerabile, sessuale, mai pacificata. Bardot come grammatica, come DNA visivo. Sempre in fotografia, Ellen von Unwerth è forse una delle eredi più evidenti: il suo immaginario giocoso ed erotico riscrive la Bardot anni Sessanta per un’epoca più consapevole. Qui l’attrice parigina non è nostalgia, è energia riattivata.

Tra il 1995 e il 1996 il giapponese Yasumasa Morimura la indossa come si indossa un ricordo non proprio. In Self-Portrait (Actress) – After Brigitte Bardot il suo volto sostituisce quello della diva, ricreandone posture e sguardi. Morimura non parla di Bardot: parla del nostro modo di guardarla. Pierre et Gilles, invece, la celebrano come icona tenera nel manifesto della mostra Le Goût du Cinéma a Cannes nel 2019. Una santa pop che non fa miracoli ma consola. L’attrice non è più un modello: è una compagnia silenziosa.

Ed è qui che la sua morte smette di essere uno shock e diventa un gesto gentile. B.B. se ne va senza reclamare l’ultima parola, senza chiedere all’arte di smettere. Come se avesse capito, prima di tutti, che essere immagine è un modo fragile di restare. Non eterno, ma persistente. Forse l’arte l’ha amata proprio per questo: perché Bardot non ha mai voluto spiegarsi. Ha lasciato che il suo volto diventasse una casa temporanea per sguardi diversi, anche contraddittori. Oggi quella casa resta. Vuota, sì. Ma ancora calda.

Germano D’Acquisto, 28 dicembre 2025 | © Riproduzione riservata

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