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Bretagna, Francia, 1985, © Olivo Barbieri

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Bretagna, Francia, 1985, © Olivo Barbieri

È la fotografia la più ecologica delle arti

Dalle periferie italiane degli anni Ottanta ai viaggi in Cina, America, Europa: il racconto della poetica di Olivo Barbieri, nata per caso in una discarica di flipper

Laura Leonelli

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Un sostantivo e un verbo. Rifiuto e rifiutare. Nella complessità dello scarto e della protesta, ha preso il via negli anni ’70 l’opera di Olivo Barbieri, straordinario fotografo nato a Carpi nel 1954, tra i massimi interpreti della contemporaneità.

L’ecologia, da intendersi come pulizia dello sguardo, analisi delle contraddizioni e delle dimenticanze, nonché denuncia dei meccanismi di distruzione della massa dei nostri pensieri, è da sempre uno dei suoi temi più cari. A Olivo Barbieri abbiamo chiesto di ripercorrere i momenti di snodo della sua riflessione, dalla volontà di indagare le logiche dell’inquinamento visivo allo sforzo di costruire un nuovo sistema di riferimenti.

Olivo Barbieri, il suo esordio nella fotografia ha una data precisa, 1977, anno in cui inizia la serie «Flippers». Ma alla fotografia si era avvicinato prima, arrivando già a rifiutarla nella ribellione giovanile.
All’università ero entrato in contatto con quello che si presentava come il mondo della fotografia, ma ho capito subito che si trattava della peggiore deriva del fotoamatorismo. Ho frequentato al Dams il corso di fotografia di Paolo Monti, le sue lezioni elogiavano il bianco e nero, il tecnicismo della stampa, il culto dell’aneddoto in stile «LIFE», i centri storici sterilizzati e mi è passata all’istante la voglia di fotografare. Mi ha salvato il caso, l’essere capitato in una discarica di flipper non lontano da casa mia: di fronte a quell’immaginario a pezzi, a quei frantumi di vetro che sezionavano e suturavano un certo mondo, ho sentito la necessità di fotografare e di riconoscermi fotografando. Da allora non mi sono più fermato. Mi sono soffermato, ma non fermato. 

Nel 1977 nasceva la televisione a colori, negli stessi anni la fotografia a colori invade la carta stampata, ma i temi sono gli stessi del fotoamatorismo in bianco e nero. Smaltitoio anche in questo caso?
C’è un episodio preciso, un’illuminazione estiva sotto il sole della Riviera. Ero nel bar di un campeggio, sfogliavo dei giornali di moda che qualcuno lasciò su un tavolo. Le fotografie erano tutte a colori, ma i soggetti sono sempre gli stessi: neppure il colore aveva suggerito di guardare diversamente o altrove. Ho rifiutato quel tipo di fotografia che stava inquinando, intossicando e indebolendo la capacità di comprendere la realtà. La prima reazione è stata indagare luoghi non ancora raccontati, a eccezione di un certo cinema molto sensibile dopo il Neorealismo. Rifiutare il centro per le periferie è stato un gesto di pura ecologia.

Ecologia significava ricreare un contesto, una connessione più complessa rispetto al monumento degli Alinari, ad esempio. 
Fino ad allora l’Italia era vista come il catasto delle cose meravigliose, un Paese da abbecedario con i monumenti isolati dal contesto, anestetizzati dal pericolo del cambiamento. Invece il cambiamento era in atto, bastava scavalcare la quinta e si apriva un mondo emergente e di emergenze. Poi tutti hanno iniziato a saltare la quinta perdendo di vista la scena vera. Successe il contrario, non si poteva più guardare la torre di Pisa perché bisognava andare in periferia. Ci sono stati anni di ortodossia noiosissima e davvero inquinante, bastava fotografare due fili che si incrociavano sullo sfondo di un condominio per pensare di aver prodotto un’opera d’arte. 

Passiamo alle periferie nei primi anni ’80, al suo Viaggio in Italia, che cosa l’aveva colpita e allarmata? 
Erano anni in cui si iniziava a parlare di ecologia e di come documentarla. Quando c’è stato il disastro di Seveso (dispersione di una nube tossica nell’azienda Icmesa di Meda il 10 luglio 1976 Ndr) abbiamo avuto tutti le idee più chiare. Rivedendo quello che ho fatto in quel periodo ho capito che non avevo fotografato in diretta la distruzione di un mondo, ma avevo colto il progetto di distruzione di quello stesso mondo. Riguardando le fotografie di allora si capisce perché le periferie sono state massacrate. Era tutto già in atto. Sono stati massacrati anche i centri storici, svuotati, trasformati in una sorta di salotto che non si riesce più a raggiungere perché non ci sono parcheggi né mezzi. È un’ulteriore follia, un inquinamento al contrario, tutti si rifugiano nei centri commerciali.

Per vedere gli effetti di quella distruzione ci è voluto ancora qualche anno. Nel 1989, l’anno del massacro di piazza Tienanmen, lei è andato in Cina. Che cosa ha visto? 
Sono arrivato in Cina nell’anno del grande cambiamento (nell’anno-matrice del cambiamento). Ho rivisto i nostri luoghi, ma su dimensioni esagerate, una gentrificazione come la nostra, ma su una scala impensabile in Occidente. Quando sono arrivato a Pechino la prima volta la strada che collegava l’aeroporto alla città era una strada di campagna con tre filari di pioppi per contrastare il vento del deserto dei Gobi. Adesso Pechino sembra Francoforte. In pochissimo tempo era spuntato il cartello che vietava il passaggio alle biciclette: la Cina storicamente si è sempre mossa sue due ruote. Era lo stesso meccanismo di assedio della reinvenzione. I centri commerciali annullavano tutto il resto. Tutto era uno spettacolo tecnologico. Stupire con la tecnologia vuol dire controllare la fantasia, il sogno e quindi il consenso, era un programma molto preciso. È uno stupore molto diverso da quello che suscita la natura. 

A un certo punto ha iniziato a fotografare la natura. Con quale consapevolezza?
Jean Baudrillard diceva che ormai ci stupivamo di più di Las Vegas che non delle Montagne Rocciose, a qualche chilometro da lì. La Cina ha fatto lo stesso. Se costruisci millecinquecento grattacieli a Shanghai è chiaro che vuoi superare ogni limite, ogni misura. Vuoi stupire più della natura. Ma il ruolo della natura non consiste nel farci perdere l’equilibrio spirituale, vedi Sturm und Drang, ma nel farci capire che siamo lì in quel periodo e che dobbiamo stare insieme ad altre cose, agli esseri umani, alle piante, agli animali e a tutto il resto. La natura è per sua essenza ecologica. Noi, no.

C’è l’ecologia della natura e quella degli uomini, che ha il difetto di essere antropocentrica, pericolosissima.
Sì, la nostra ecologia di uso corrente è un po’ becera e fa discorsi del tipo «se continuiamo così sparirà la Terra», ma non è così, sparirà l’uomo sulla terra, il mondo ci sarà sempre, fino a quando l’universo imploderà in un altro buco nero. È lo stesso discorso sullo stupore, ci stupiamo dei grattacieli e non delle cose naturali. E allora per stupirci della natura abbiamo dovuto inventare i parchi tematici, che a loro volta spingono milioni di turisti a muoversi da una parte all’altra del mondo, e dunque a inquinare. Ma senza le risorse create dal turismo non potremmo mantenere una serie di cose. Se le Dolomiti non fossero diventate patrimonio Unesco ce le saremmo «mangiate». Ricordo che in Cina, non tanti anni fa, per costruire una centrale a carbone hanno spianato una montagna.

Che ruolo ha la fotografia in questo scenario?
È l’arte più ecologica perché riesce a essere immateriale, ancor di più con le nuove tecnologie. Il valore dell’opera fotografica non è più nell’impronta dell’uomo, con Picasso è finito il discorso della traccia umana. La fotografia è il primo linguaggio visivo che non interviene sulle cose, può essere puro pensiero, puro spirito. Il meccanismo ecologico della fotografia è riuscire a far vedere cose enormi senza sporcare, senza inquinare nulla. Puoi paragonare luoghi lontani senza dover viaggiare. Anzi, da quando abbiamo spedito un’immagine con una mail, la fotografia non esiste più. E forse non esistono neanche più le immagini. Più ecologico di così non si può.

GALLERIE D’ITALIA - TORINO
I contributi speciali pubblicati nei mesi scorsi per approfondire alcune questioni cruciali del dibattito contemporaneo sulla fotografia in vista dell’apertura della nuova sede di Gallerie d’Italia
 

Bretagna, Francia, 1985, © Olivo Barbieri

Flipper, 1977-88 © Olivo Barbieri

Da Viaggio in Italia, 1982 © Olivo Barbieri

Jatiparang, Semarang, Indonesia 2013 © Olivo Barbieri

Toscana, da Viaggio in Italia, 1982 © Olivo Barbieri

Shanghai © Olivo Barbieri

Las Vegas © Olivo Barbieri

Laura Leonelli, 09 marzo 2022 | © Riproduzione riservata

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