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Olivo Barbieri, Grenoble, France (1982). Cortesia dell'autore

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Olivo Barbieri, Grenoble, France (1982). Cortesia dell'autore

Anche l’inquinamento è guerra

Dai disastri ambientali di Donora, Minamata, Seveso e Chernobyl fino alla visione «senza via di uscita» di Olivo Barbieri: la fotografia allo specchio tra documentazione e consumo

Laura Leonelli

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Da qualche giorno era scesa una strana nebbia giallastra, ma erano i giorni che precedevano Halloween nell’ottobre del 1948 e gli abitanti di Donora, piccola città industriale della Pennsylvania, non si posero troppe domande oltre al tradizionale «dolcetto o scherzetto?». In molti, il venerdì 29, andarono alla partita dei Donora Dragons, la squadra locale di football, e in effetti qualche problema c’era perché nessuno vedeva la palla.

La notizia del primo morto arrivò il giorno dopo. Poi altri diciannove decessi, tutti per soffocamento. Nelle stesse ore, negli ospedali si riversarono centinaia di abitanti con crisi cardiache e respiratorie, e altrettanti cercarono di fuggire dalla città. Domenica 31, verso mezzogiorno, arrivò, voluta dal caso, la salvezza: iniziò a piovere e la nube tossica di acido fluoridrico, diossido di zolfo e fluoro, prodotta dalle fabbriche della Zinc Works e dell’American Steel & Wire Company e rimasta tragicamente nell’aria a causa di un’inversione termica, scomparve.

Quando Alfred Eisenstaedt arrivò a Donora, si stavano celebrando i primi funerali. Il famoso inviato di «Life» seguì un corteo e in quel cimitero, tra i pochi alberi sul fianco di una collina, forse sono nate le prime immagini che documentano in tempi di pace gli effetti di un disastro ambientale per inquinamento atmosferico. Erano immagini di cronaca, come quelle dei malati sotto le tende a ossigeno o delle case vicine alle fabbriche, che per altro furono chiuse solo la domenica e riaperte il lunedì.

Immagini che accompagnarono le indagini di venticinque esperti federali, i quali ebbero non poche difficoltà visto che i membri del consiglio comunale di Donora lavoravano nelle stesse fabbriche sotto inchiesta e alcuni di loro ad alto livello. Immagini, ancora, che spinsero Harry Truman, presidente degli Stati Uniti, a convocare nel 1950 la prima conferenza sull’inquinamento.

Dall’altra parte dell’oceano, nel 1952, tra il 5 e il 9 dicembre Londra rimase avvolta da «the Great Smog», una miscela velenosa di fumo e nebbia, di «smoke e fog», come suggeriva il neologismo apparso già nel 1905 sul «Journal of American Medical Association». Di nuovo un’inversione termica aveva provocato il ristagno dei fumi.

Ma a generare un tale livello di inquinamento era stato indirettamente il Governo inglese che, a causa della difficile situazione economica nella quale versava il Paese dopo la guerra, aveva deciso di esportare il carbone di migliore qualità e tenere quello meno pregiato, perché con più zolfo, per il consumo nazionale.

Nei quattro giorni del «grande smog» si riversano nel cielo di Londra 370 tonnellate di anidride solforosa, 140 tonnellate di acido cloridrico e 14 tonnellate di composti di fluoro. Nella prima settimana i decessi per insufficienza respiratoria e polmonite furono 4mila, e nei quattro mesi seguenti si registrarono 13.500 morti in più rispetto all’anno precedente.

Come a Donora, i fotografi di cronaca ripresero lo strano evento, anche a colori, e sono le istantanee dei vigili che scortano gli autobus illuminando la strada con una lanterna, sono i passanti con i fazzoletti e le mascherine di stoffa sulla bocca, e sono le guardie scozzesi che marciano e quasi non vedono l’entrata di Buckingham Palace. Come a Donora, anche queste immagini spinsero il Governo ad agire e nel 1956 la regina Elisabetta firmò il «Clean Air Act», approvato dal Parlamento.

Nello stesso anno a Minamata, nella prefettura di Kumamoto in Giappone, venivano registrati i primi casi di una sindrome neurologica da intossicazione da mercurio. Fin dal 1932 l’industria chimica Chisso Corporation rilasciava metilmercurio nelle acque reflue, contaminando pesci e molluschi della baia di Minamata e causando l’avvelenamento degli abitanti, pescatori, e dei loro figli ancora in grembo. Nonostante la ricerca scientifica avesse dimostrato la responsabilità dell’azienda, le inchieste vennero insabbiate e solo nel 1968 il Governo ammise che l’origine della «malattia di Minamata» era l’inquinamento industriale.

Nel 1971 W. Eugene Smith, cinquantatré anni e già leggenda della fotografia, scopre sul giornale la notizia che gli abitanti di Minamata si sono riuniti in un comitato e hanno iniziato una drammatica lotta per il risarcimento delle vittime. Senza indugio Smith lascia New York e insieme alla moglie Aileen Mioko si trasferisce a Minamata, dove resta tre anni e dove realizza l’immagine simbolo «Tomoko and mother in bath»: Tomoko, nata il 13 giugno 1953, il corpo deforme, e sua madre Ryoko che la tiene amorevolmente tra le braccia nella vasca di un tradizionale bagno giapponese.

Nel 1972, il servizio «Death-Flow from a Pipe» viene pubblicato su «Life», e per questo lavoro memorabile, poi raccolto nel volume Minamata, il grande fotografo vince nel 1974 la Robert Capa Gold Medal. Per la prima volta questo riconoscimento così autorevole, che dalla nascita nel 1955 aveva premiato le immagini di guerra in Vietnam, in Ungheria, in Libano, in Nicaragua, in Cambogia, in Laos, in Cile, denuncia altre violenze, altre battaglie.

Anche l’inquinamento è guerra, aveva testimoniato W. Eugene Smith. Ci sono vittime innocenti, ci sono colpevoli. E negli anni ’70 c’era un’opinione pubblica disposta a informarsi e a reagire. Anche perché questo tipo di guerra, a volte, è dietro casa. È un caso se le Gallerie d’Italia di Torino apriranno in primavera con l’importante lavoro sull’ambiente di Paolo Pellegrin, anche lui vincitore della Robert Capa Gold Medal e, in un passaggio di testimone, del W. Eugene Smith Grant in Humanistic Photography?

Se la fotografia volesse guardarsi allo specchio, come suggerisce l’immagine di autore anonimo realizzata verso la fine dell’Ottocento e oggi parte della Collezione Ettore Molinario, immagine di sorprendente e misteriosa precocità concettuale, capirebbe, forse con un certo imbarazzo, di aver combattuto da entrambe le parti della barricata.

Capirebbe insomma di aver esaltato, interpretato e difeso la nuova bellezza della produzione industriale, tanto ne faceva parte, e al tempo stesso, al momento giusto, più opportuno e non più rimandabile, di aver accusato quello stesso progresso industriale, quella stessa propulsione capitalista che l’aveva partorita e offerta al mondo come una nuova e irrinunciabile forma di consumo.

Alla fase eroica, a quella sinfonia metropolitana di macchine perennemente in movimento, appartengono le fotografie industriali di Aleksander Mikhailovich Rodchenko, le prospettive vertiginose di Germaine Krull, i cantieri navali di François Kollar, i prodotti in serie di Albert Renger-Patzsch, le pubblicità di Dora Maar e le «composizioni luminose» di László Moholy-Nagy dove gli oggetti più semplici, un ingranaggio, un cucchiaio, un bicchiere, rivelano il mistero della loro natura. Natura evidentemente sinistra, malefica, quasi radiografie di fantasmi che annunciano, pochi anni dopo, uno scenario e una coscienza diversi.

Alla fine degli anni ’60 Giorgio Lotti inizia la sua famosa inchiesta sul petrolchimico di Porto Marghera e la intitola «Venezia muore», intuendo che il fascino della città, nella schiuma che galleggia tra le gondole e negli angeli che cadono dalle chiese, avrebbe alzato il livello di allarme. Poi arriva Seveso, 10 luglio 1976, un’altra nuvola, grigia questa volta, e al volto corroso delle statue della Serenissima si sostituisce quello sfigurato dalla diossina della piccola Stefania Senno, ritratta con drammatica delicatezza da Mauro Galligani.

La cronaca avanza, 3 dicembre 1984, disastro di Bhopal, sulla sbarra degli imputati sale la Union Carbide e su quello dei testimoni, tra gli oltre 4mila morti, appare un bambino di pochi anni, sorpreso da Pablo Bartholomew l’attimo prima che la terra gli ricopra gli occhi, azzurri e ancora aperti. L’anno dopo questa fotografia vince il World Press Photo e nel 1987 viene premiata per la categoria Science & Technology la visione aerea della centrale nucleare di Chernobyl, firmata da Igor Kostin.

Manca poco a che l’inquinamento del pianeta esca dai limiti della cronaca, perché ormai quotidiana emergenza, e diventi tema a sé. Si può certo pensare alle campiture terrestri di Edward Burtynsky o, passando dal meno al più, al cantico degli ultimi paradisi di Sebastião Salgado, ma entrambi i lavori forse compiacciono troppo lo sguardo. A modo loro, lo inquinano.

Più forte, più intensa, più «senza via di uscita», e soprattutto mai compiaciuta, è la visione di Olivo Barbieri, protagonista della fotografia internazionale, che su questi temi, nella complessità del sistema che li sostiene e li nutre, ha iniziato a riflettere già alla fine degli anni ’70. In una discarica di Grenoble, sotto un fascio di fari spenti, le carcasse di macchine quasi in miniatura sono lo spettacolo di un Occidente al capolinea. Fine del mito dell’eterna e gioiosa mobilità. Ogni luogo è stato raggiunto. Ogni viaggio simulato.

Trent’anni dopo, nella discarica di Jatiparang, in Indonesia, raccolta nella serie «Mountains and parks 2003-2019», le vacche sacre, indifferenti all’orrore dell’uomo, pascolano tra l’immondizia. Forse è l’ultima montagna incantata, forse l’ultimo parco a tema. Forse è l’ultima domanda: dolcetto o scherzetto?

GALLERIE D’ITALIA - TORINO
I contributi speciali pubblicati nei mesi scorsi per approfondire alcune questioni cruciali del dibattito contemporaneo sulla fotografia in vista dell’apertura della nuova sede di Gallerie d’Italia
 

Olivo Barbieri, Grenoble, France (1982). Cortesia dell'autore

Anonimo, Francia (1890 circa). Cortesia Collezione Ettore Molinario

Olivo Barbieri, Jatiparang, Semarang, Indonesia (2013). Cortesia dell'autore

«Tomoko and mother in bath» (1971) di W. Eugene Smith

«Donora, Pa. Smog» (1948) di Alfred Eisenstaedt

Laura Leonelli, 24 febbraio 2022 | © Riproduzione riservata

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