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Pietro Privitera
Leggi i suoi articoliSembra un giochino, ma non lo è. Ha una madre e un padre celeberrimi: la Polaroid e Andy Warhol. Instagram ha uguagliato la leadership di Facebook, è un chiaro punto di riferimento per la cultura visiva attuale e non lo si può ignorare senza voler essere snob a tutti i costi. In un tripudio di egocentrismo, narcisismo ed esibizionismo, a partire dal selfie l’individuo può presentare a tutto il mondo e condividere con esso in tempo reale la propria storia come prima era permesso solo ai principi, ai potenti e successivamente agli artisti. Già Warhol sosteneva che le immagini esistono per essere condivise
Dichiarazione d’intenti Instagram ha modificato il volto della fotografia nell’era digitale della comunicazione. Instagram è qualcosa di più e di diverso dalla semplice condivisione di una foto digitale sul social network. Il suo valore aggiunto è nella confluenza di elementi comuni a Facebook a Twitter o a Flickr, oltre che in altre sue caratteristiche originali: come la possibilità di scattare un selfie sullo smartphone, elaborarlo con dei filtri creativi senza uscire dalla app, e renderlo pubblico in tempo reale a disposizione dell’intero pianeta.
Negli anni Sessanta la Polaroid con la sua estetica pop scosse il mondo della fotografia mostrando la lingua alla tradizione. Coinvolse la cultura delle arti visive ed ebbe implicazioni sociologiche e comportamentali. Il poter vedere nell’immediatezza il risultato si sintonizzava sul «tutto e subito» sessantottesco e si contaminava del dibattito, non esclusivamente psicanalitico, sul concetto di desiderio nel rapporto tra principio del piacere e principio di realtà.
Instagram, come la Polaroid, ti fa sentire un fotografo creativo, ma non vuole sostituirsi alla fotografia professionale e non pretende un posto d’onore al tavolo dell’arte. Instagram è un concetto di fotografia contemporanea come lo è stato la Polaroid.
Questo in teoria e nelle intenzioni. Oggi in realtà Instagram è un immenso contenitore, al cui interno convivono fotografia, musica, video, fumetti, e-commerce, letteratura e tutto quanto si possa condividere istantaneamente su scala planetaria, nell’uso, e spesso abuso, del suo potere mediatico e ipnotico.
Ma facciamo un passo indietro.
1. Che cos’è dunque Instagram? «Capture and Share the World’s Moments», ecco che cosa ti invita a fare questa app per smartphone. Comparsa online nel 2010, permette di rendere pubbliche, cioè di condividere («share»), le proprie immagini in un forum virtuale accessibile a un pubblico universale, costituendo un’esposizione in tempo reale di miliardi di immagini. Immagini che ognuno può vedere e commentare, ricevendo a sua volta commenti e approvazione sulle proprie foto. Potrebbe sembrare un giochino ma non lo è. La dinamica dei «like», il click sul cuoricino con cui ogni utente esprime il gradimento sulla foto altrui, è mutuato dal «pollice alzato» di Facebook (e ora viceversa), il social network per antonomasia che non a caso ha acquisito prontamente la gestione di Instagram che è un vero e proprio social network dell’immagine. Anche Instagram crea una comunità in cui ognuno si può perdere o riconoscere, giocare con le immagini come consentono di fare soprattutto con le parole gli altri social. Si può seguire ed essere seguiti, gratificare o venire gratificati; anche qui ci sono i follower e i following, tutti sono creatori e giudici al tempo stesso. Tutti sono potenziali fotografi, nello stesso senso in cui tutti parlano o scrivono. L’evoluzione dell’homo photographicus, profeticamente annunciato dalla Kodak nel 1888 con lo slogan: «You press the button, we do the rest...» compie con Instagram un ulteriore passo in avanti.
2. Un fenomeno di grandi numeri Instagram costituisce il più vasto rumore di fondo iconico dall’invenzione della fotografia ad oggi. Al pari dell’infinità di parole, suoni e gesti che si riversano quotidianamente sul pianeta, viene prodotto e scambiato in rete un numero incalcolabile d’immagini.
Proprio come le parole, i suoni e i gesti, anche le foto presenti nelle comunità virtuali sono segni elementari di comunicazione sociale (o per dirla con Umberto Eco materia di segni) prima che prodotti culturali. Infatti, la maggioranza delle foto presenti su questa piattaforma si manifesta come una massa teoricamente infinita di segni e bit visivi destinati a spegnere il loro ciclo vitale e iconico subito dopo essere stati postati sul server o una volta esaurita la loro funzione di contatto, di interazione sociale o, addirittura, di merce di scambio. In sostanza una sorta di interminabile chiacchiericcio visivo globalizzato. A giudizio dei suoi detrattori, la funzione di Instagram non andrebbe oltre. Parafrasando le riflessioni sul destino della fotografia elaborate da Susan Sontag, Instagram stimolerebbe tuttalpiù una sorta di voyeurismo livellante, una forma perversa di bulimia estetica anestetizzante, in cui l’immagine e il suo significato si perdono nel medium. Un medium protagonista a pieno titolo del villaggio globale di Marshall McLuhan.
Impossibile prevedere però se questa massa di fotografie apparentemente insignificanti non costituirà in futuro materia di analisi erudite sulla formazione di un linguaggio visivo popolare seguendo lo stesso percorso di quegli idiomi parlati che da sempre gli studiosi confrontano con le espressioni della sua versione più nobile, ovvero la lingua letteraria. In questi anni i critici più attenti stanno riflettendo sull’avvento dell’uomo digitale e soprattutto sul ruolo della fotografia nel dibattito semiotico sull’arte; anche se spesso con pochi e inadeguati strumenti e argomenti teorici a disposizione, spiazzati forse dalla velocità con cui ogni aspetto della nostra vita è condizionato di ora in ora da questa rivoluzione.
3. Cani, gatti e parenti Rispetto ai suoi milioni di utenti (700 nel 2017), è verosimile che solo una minima parte della comunità di Instagram elabori un discorso espressivo consapevole e coerente al medium. Anche sommando eventuali talenti spontanei, chi individua il senso di un percorso originale nel creare le proprie gallerie di immagini si può stimare nell’ordine delle decine di migliaia. Pochissimi, ma anche la letteratura è abitata da un numero di scrittori di gran lunga inferiore a quello dei libri pubblicati nel mondo.
Sul piano strettamente mediatico, invece, l’intera utenza Instagram risponde compatta e aderisce a pieno titolo alle profonde mutazioni che il mondo virtuale ha provocato nelle abitudini e nei comportamenti delle popolazioni globalizzate. L’accesso diretto agli strumenti di distribuzione che internet ha favorito, allentando i vincoli del loro controllo e della loro gestione, ha scatenato una vera e propria corsa all’autoproduzione espressiva in ogni forma e a tutti i livelli. La diretta conseguenza è che nel campo musicale si assiste a una crescita esponenziale di etichette indipendenti e a livello di editoria la pubblicazione in proprio di libri è ormai una possibilità alla portata di chiunque. Si diffondono i propri testi, la propria musica e i propri video postandoli in rete attraverso canali autogestiti e si creano milioni di virtuali autori-fruitori. Per tutti le parole d’ordine sono «connessione continua» e «share». Su questa traccia anche l’immagine fotografica digitale (fino alle sue varie declinazioni di «iPhonegrafia» o «mobile art») conosce nuove forme di democraticizzazione, sia comunicativa che espressiva. A mano a mano che le nuove tecnologie rimuovono gli ostacoli tecnici (gli smartphone sono gli utensili più visceralmente intimi mai posseduti fino ad oggi) si azzera ogni residuo di soggezione e di imbarazzo creativo. L’alfabetizzazione si trasferisce dalle lettere alle immagini con la conseguente formazione di una primordiale sintassi fotografica popolare. Infatti, è certamente più semplice fare una foto al proprio oggetto affettivo che raccontarlo a parole. Per inciso, cani, gatti, bambini, parenti e amici totalizzano da soli almeno la metà dei soggetti postati su Instagram.
4. Un catalogo enciclopedico del mondo Instagram funziona essenzialmente su due livelli: il primo, indispensabile, è l’inserimento di una immagine. Il secondo è l’eventuale reazione del follower, sotto forma di «like» o di commento. Il primo livello, a sua volta, è associato a funzioni discrezionali, ma spesso fondamentali, che prevedono un testo, una «caption», sotto forma di commento o di didascalia esplicativa. O la possibilità di associare il proprio intervento fotografico a un contesto attraverso l’uso degli hashtag (parole chiave). A tutto ciò rispondono i follower, figure già note a tutti i social network, che segnalano come marker fluorescenti l’avvenuta condivisione dell’immagine e l’eventuale desiderio di comunicare con l’utente.
L’hashtag, nato con Twitter (quello dei famosi 140 caratteri per esprimere un messaggio), tecnicamente è un’etichetta (tag) che raggruppa argomenti e temi. Su Instagram, associato all’immagine che è l’elemento principale della comunicazione, spesso sfugge al controllo intenzionale da parte di chi posta la foto. Per questo motivo l’hashtag può fornire, suo malgrado, indicazioni su dati sensibili, come la collocazione sociale e culturale dell’utente, le sue conoscenze, le ambizioni e le sue intenzioni. A esclusione infatti dell’argomento sessuale esplicito, censurato formalmente dai gestori del network per evitare derive porno facilmente intuibili (ma ugualmente presente sotto mentite spoglie) tra gli hashtag di Instagram scorre l’intera gamma dell’esperienza umana. L’immenso catalogo di Instagram si costruisce giorno per giorno: ogni pensiero o costruzione mentale è un potenziale hashtag che attira, oltre al consenso su un’immagine, l’adesione a un modello di interessi o di valori. In questa prospettiva, Instagram si struttura come una sorta di Wikipedia per immagini, probabilmente più vasta dell’originale ma evidentemente senza intenzioni e pretese divulgative, né tantomeno scientifiche. Un’enciclopedia virtuale non ragionata dell’esperienza visiva. Un archivio sterminato di immagini, un catalogo illimitato e non critico dello scibile e del conosciuto, una raccolta di variazioni sul tema, ripetute all’infinito, tante volte quanti sono i pensieri cui segue il semplice gesto di scattare una foto e condividerla in rete. Inserita su Instagram così com’è, al «naturale», o dopo averla elaborata con semplici artifizi, per renderla «creativa», «artistica», o forse soltanto più gradevole.
5. «Guardate come sono ricco» (basta uno smartphone) Instagram non discrimina a priori per meriti, capacità o competenze, né per appartenenza economica o per provenienza sociale. Il semplice possesso di uno smartphone, ormai alla portata di tutte le realtà globalizzate (è più diffuso di un frigorifero o di altri elettrodomestici anche nei Paesi più poveri) consente teoricamente a chiunque di aderire alla grande kermesse fotografica della rete. Esiste casomai nei suoi confronti un «apartheid» al contrario che è alimentato dalla fisiologica e spesso nostalgica diffidenza per le tecnologie o da un atteggiamento di rifiuto, in nome di una fotografia «colta», contro la presunta volgarità di certi strumenti di massa.
A vario titolo, in questa babele di umane necessità e passioni, capita poi di imbattersi in situazioni grottesche: a conferma della sua versatilità, Instagram si presta a diventare vetrina di eventi e circostanze stravaganti, ormai diventati fatto di cronaca, ufficializzati da libri e oggetto di blog in rete. Le gare a esibire la ricchezza in tutta la sua volgarità sui network sono sempre più frequenti e popolari. Nelle loro gallerie di foto, giovani rampolli ereditieri e figli sfaccendati dell’altissima borghesia, all’inizio soprattutto americana, ostentano la loro sfacciata e fastosa prosperità ritraendosi in atteggiamenti, il più delle volte ridicoli, e in circostanze in cui sfoggiano auto, barche e altri status symbol da sceicco arabo: il loro scopo è attirare odio e invidia. Chi si fotografa con tre Rolex al polso, chi fa linguacce mentre viaggia sul suo jet privato o si immortala sbracato sul proprio yacht. «They have more money than you and this is what they do» recita il loro motto (hanno più soldi di te e questo è ciò che fanno).
Quotidianamente la cronaca ci aggiorna citando Instagram: al lettore attento non sfugge che carta stampata e rete riportano in rubriche e articoli curiosità pescate nel network, a volte frivole ed eccentriche altre meno. Instagram è anche tutto questo.
6. Una nuova identità Instagram e la sua comunità virtuale svolgono fondamentalmente una funzione comunicativa e, coerentemente al ruolo ossessivo comune ai social network, rispondono al compito che qualcuno in rete ha definito «la volontà di collegare». In questo senso gli «instagramers» mirerebbero principalmente a utilizzare un dispositivo di comunicazione piuttosto che uno strumento immaginifico. David McMillan, giornalista americano, scrive che il fotografo su Instagram cerca «una nuova identità», dipendente dal riconoscimento dell’altro e da parte dell’altro, senza che ciò coinvolga né amicizia né amore, evocando dinamiche della psicologia collettiva, in un rituale in cui le immagini chiamano internet come l’Abramo della Bibbia chiama Dio, per dirgli «io sono qui»! Una tesi sensata, a giudicare dalla migrazione senza precedenti, e tutto sommato paradossale, verso Instagram di fotografie scattate con mezzi diversi dagli smartphone e addirittura con altre tecnologie non digitali ma analogiche. Questa sorta di diaspora coinvolge fotografi ma non solo, ed è chiaramente finalizzata a profittare del paesaggio stesso in cui collocare la fotografia, per esporla ai riflettori del consenso e del riconoscimento universale. Nonostante le diffidenze di cui s’è già detto, anche un gran numero di professionisti vorrebbe avvantaggiarsi dell’enorme potenziale comunicativo di Instagram. Per questo motivo già parecchi di loro vi trasferiscono ormai quotidianamente parte del proprio lavoro.
7. Dalla Polaroid a Instagram Instagram riveste dunque un’importanza strategica nella svolta iconica epocale avviata dalla immagine digitale. Grazie a un linguaggio fotografico innovativo (anche rispetto alla foto digitale stessa) e per il ruolo trainante di comunicazione sociale, Instagram ha eguagliato la leadership di Facebook. È un chiaro punto di riferimento per la cultura visiva attuale e non lo si può ignorare senza voler esser snob a tutti i costi. La sua presenza quasi invadente nel quotidiano (c’è qualcuno che non sente parlare di selfie in continuazione?) condiziona convenzioni e abitudini anche nell’individuo comune che si confronta con la fotografia. Già nel secolo scorso la Polaroid, affacciandosi al mondo della foto tradizionale come percorso parallelo e alternativo, aveva creato interferenze ai confini dell’area «nobile» della fotografia; dalla sua collocazione borderline aveva tracciato un taglio di discontinuità con la storia dell’immagine fotografica postbellica, ancora carica di residui ottocenteschi. Era il 1947 e l’industria americana riversava a getto continuo brillanti invenzioni sull’Occidente per creare soprattutto mercato, ma anche per costruire una cultura popolare nazionale e dominante: Polaroid configurò l’immagine a sviluppo immediato come un’unità minima di significazione fotografica. Una sorta di alfabeto con poche lettere diverse da quelle normali e un repertorio di scrittura limitato ma facilmente riconoscibile e specializzato. Accanto alla prima fase di entusiasmo ludico, in cui la Polaroid aveva condiviso la grande euforia della Pop art (Andy Warhol con la Polaroid in mano è una delle icone più celebri di quel periodo artistico), già dagli anni Sessanta apparve chiaro che l’idea di visualizzare istantaneamente il risultato era rivoluzionaria non solo in una logica commerciale, ma anche dal punto di vista della filosofia dell’arte, perché ribaltava una delle caratteristiche fino ad allora necessarie e imprescindibili della fotografia. Vale a dire i tempi differiti (e spesso estenuanti), spesi in procedure laboriose e soprattutto affidate a terzi estranei, tra il momento dello scatto e quello del godimento del risultato. Piegando la «schiavitù» dell’attesa associata all’idea stessa della fotografia, la Polaroid operava innanzitutto sul piano emotivo e sociale del fruitore, e si prestava perfettamente a farsi interprete e strumento, certamente involontario, dei grandi stravolgimenti culturali degli anni Settanta. Nel caos che attraversava ogni settore della comunicazione, Polaroid annunciava a modo suo il trionfo delle libertà individuali offrendo a tutti, e veramente a tutta una platea di assoluti «ignoranti» delle tecniche fotografiche, la sua «magica scatola» in grado di operare in totale indipendenza. Proprio negli stessi anni esplodeva la rivoluzione dei costumi sessuali e la diffusione capillare delle Polaroid non a caso veniva a coincidere con il boom della pornografia casalinga. Sulla spinta di un individuo liberato e sottratto al controllo della società oppressiva, la Polaroid privilegiava la privatizzazione esasperata dell’esperienza fotografica nella sua duplice chiave di autonomia e immediatezza. Solo che l’io privato (o addirittura segreto) opposto all’io pubblico si muoveva in direzione diametralmente opposta agli attuali imperativi della condivisione, il culto dello «share» creato dai social network. Eppure, con 50 anni di scarto, la fotografia a sviluppo istantaneo anticipava idealmente, anche se con tecnologie oggi superate ma ingegnose (e ancora intriganti per il loro fascino vintage), la caratteristica principale della fotografia digitale, oggi sempre più prossima a operare, in termini di velocità e immediatezza, in un tempo reale in sincronia perfetta col pensiero umano. Nella sua marcia di avvicinamento non solo concettuale verso l’organo della vista (già iniziata dai «Google glass», gli occhiali portatori della «realtà aumentata»), lo strumento fotografico disegna un ciclo ideale nel progetto futuribile di sovrapporsi, e quindi di sostituirsi, all’occhio stesso per dare vita concreta ai primi individui bionici in grado di registrare un’immagine con un battito di ciglia!
8. Wunderkammer digitale Se lo spartiacque tra un’era pre e una post virtuale attiene unicamente alla diversa tecnologia che gestisce l’immutato (e immutabile per alcuni) rapporto tra la foto e il suo oggetto, allora, in effetti, tra la foto analogica e quella digitale non corre molta differenza. Che l’immagine si formi su un supporto di celluloide o su uno strato di pixel poco importa. Ma, evidentemente, dall’invenzione dei caratteri tipografici di Gutenberg in poi, ogni evoluzione tecnologica produce a cascata effetti sociali e culturali la cui reale portata è difficile da prevedere se non in una prospettiva storica. Nel 2011 uno storico dell’arte tedesco, Hubert Burda, ha pubblicato un volume dal significativo titolo: The Digital Wunderkammer: 10 Chapters on the Iconic Turn. Instagram non esiste ancora quando il libro viene concepito, ma la sua lettura è una traccia interessante per una visione del contesto, anche storico, in cui collocare il social network delle foto condivise. La premessa fondante dell’autore è che la digitalizzazione ha modificato il mondo e lo ha fatto oltretutto a ritmi sconvolgenti. Non solo le informazioni, ma le immagini ormai si diffondono istantaneamente su larga scala, e questo ha cambiato il modo stesso di percepirle: i creatori di media, i giornalisti, i fotografi, gli editori, i programmatori di software, intere categorie di addetti ai lavori sono direttamente coinvolti come attori e promotori in questo processo evolutivo che interpreta la nuova percezione del mondo che ci circonda. La comunicazione visiva è ormai predominante, e insieme alla comunicazione mutano le fondamenta della società stessa. Già altre volte, suggerisce Burda, nella storia dell’arte invenzioni apparentemente secondarie nate dalle arti visive hanno in realtà rivoluzionato la loro epoca e non solo nel suo settore specifico: per esempio, scrive, la messa a punto dell’incisione su lastra di rame ad opera di Martin Schongauer, consentì, con la produzione meccanica delle copie, di slegare l’opera da un luogo e ne permise la diffusione in tutto il mondo (con le conseguenze sociali e culturali che conosciamo o che comunque possiamo immaginare).
In tempi più recenti, fotografia e cinema hanno alterato il senso stesso della comunicazione, e alla luce di quanto ci ha insegnato la storia riguardo a queste innovazioni tecnologiche, oggi possiamo prevedere, con una certa attendibilità, che tutti gli effetti interdisciplinari della digitalizzazione dell’immagine si riveleranno completamente solo nel corso del tempo. Televisione e internet hanno perfezionato questa rivoluzione offrendo la fruizione simultanea in tutto il mondo delle immagini; e internet, in particolare, è diventato il primo medium personalizzato col quale ognuno può accedere alle immagini e decidere di catalogarle a proprio piacimento. La riproduzione teoricamente infinita d’immagini attraverso algoritmi informatici ne ha sostanzialmente cambiato l’importanza nella società e ne ha mutato anche la qualità.
Ma Burda rimarca anche un’affinità tra l’immagine classica e quella attuale. Un’analogia che egli interpreta come una significativa continuità storica dell’immagine in sé: la cui percezione non può prescindere dalla presenza di un «frame» (una cornice intesa, anche in senso lato, come contesto). Questa cornice collega oggi lo schermo televisivo alla pittura prospettica, in una sorta di consequenzialità tra la cornice materiale dell’immagine e quella immateriale della sua realtà digitale.
Dalle vedute attraverso la finestra nella pittura fiamminga di Jan van Eyck, simbolo probabile del desiderio occidentale di voler guardare il mondo dall’interno verso l’esterno (l’atto di «incamerare» una visione del mondo e portarla dentro la casa per privatizzarne la fruizione) si giunge, nel 1646, alla «camera obscura» di Athanasius Kircher, trasformata secoli più tardi nella fotografia. E dalla caverna di Platone, in cui le ombre della realtà sono proiettate sulla parete, e che sarà fonte di ispirazione nel XVII secolo per la lanterna magica, nascerà trecento anni dopo il rito del cinema. Oggi Instagram sembra riassumere simbolicamente su di sé entrambi i processi: cattura l’immagine al suo interno, ne elabora l’impronta e dopo averla metabolizzata e trasformata la riproietta sullo schermo virtuale per renderla condivisibile.
Grazie alle nuove tecnologie, le immagini sono diventate trasportabili, e, ancora più precisamente, mobili e modificabili, e il fatto che l’osservatore, attraverso uno schermo, possa intervenire sull’immagine cancella la distanza tra loro. Lo schermo, come supporto dell’immagine digitale, promuove la globalizzazione; e, come in un film di Andy Warhol, il mondo rappresentato in tempo reale contribuisce a creare un universo parallelo. Questa virtualizzazione del reale produce la vertiginosa sensazione di immergersi in un’intelligenza comune e di prendervi parte, e sembra giustificare l’euforia che contamina chi accede in massa a internet e alla rete. Jean Baudrillard, tuttavia, in questo universo virtuale scorge esattamente il contrario, la minaccia più seria al futuro stesso dell’immagine. Per il sociologo francese proprio a causa di questo sdoppiamento, l’attrito del dualismo realtà-finzione farà venir meno la necessità dell’oggetto reale. Prefigurando, in uno scenario teorico quasi apocalittico, un’uccisione metaforica della «realtà reale» da parte della «realtà producibile». E questa invasione di icone nella nostra vita, avverte Baudrillard, già segna il loro destino tragico: la creazione incessante di immagini annienterà il loro stesso senso. Paradossalmente, iconolatria e iconoclastia, patologie avverse del fanatismo iconico, finiranno per sovrapporsi e coincidere. A bilanciare tanto catastrofismo, in una diversa prospettiva, il filosofo Pierre Lévy afferma invece che il mondo virtuale in quanto «farsi altro» non è in sé né positivo né negativo: esso non è affatto il contrario del reale, e ha poco a che fare con il falso, l’illusorio e l’immaginario. Sostenendo che la virtualizzazione non è affatto un passaggio da una realtà a un insieme di possibili, ma una mutazione dinamica di identità dell’oggetto, attraverso la quale l’oggetto si arricchisce creativamente, Lévy esorcizza decisamente la sparizione universale connessa alla «derealizzazione» generale paventata da Baudrillard e rassicura che gli scenari del cyberspazio, come sceglie di chiamare il contesto digitale, richiederanno solo il tempo necessario per capirne l’utopia e godere i suoi vantaggi nella vita quotidiana futura. In questo nuovo contesto di transizione dal reale al virtuale, come andrà interpretata la teoria di Walter Benjamin sull’aura dell’opera d’arte ai tempi della sua riproducibilità tecnica? È legittimo prospettare che sia già stata travolta dall’immagine informatica? In effetti, la «sostanza numerica» dell’opera digitale ha cancellato oggettivamente la barriera tra originale e riproduzione. Ma come risultato paradossale, l’aura, più che annientata, risulta enfatizzata dalla sua ripetizione teoricamente infinita.
Ritornando al concetto di «frame», questo sarebbe una sorta di non luogo che garantisce storicamente il concetto moderno di immagine: dove lo schermo formato dai pixel rappresenta l’interfaccia evoluta della rappresentazione su legno e su tela della pittura, e la finestra Windows di Bill Gates è la prima cornice digitale della nuova era. Paradossalmente, conclude Burda in tono provocatorio,
Perché Google rappresenta la forma più avanzata di quella che per secoli, dall’età barocca in poi, è stata la Wunderkammer, la raccolta e la catalogazione metodica e spesso ossessiva, compiuta ad opera di sovrani e potenti, di ciò che la società conosceva in quel momento. Interrotta solo per breve periodo nel XX secolo dal Whole Earth Catalog, bizzarro catalogo enciclopedico di vendita per corrispondenza, la Wunderkammer è riapparsa oggi prepotentemente in ognuna delle nostre case sotto la forma dei motori di ricerca. La «disumana» potenza degli algoritmi consente a Google di offrire una catalogazione che le persone comuni dei nostri giorni percepiscono come una magia. I programmatori informatici sono i moderni sciamani-registi delle Wunderkammer digitali. Oggi agli oggetti si sono sostituiti i dati: ai dati, attraverso i social network i nostri corpi e le loro immagini. Facebook (dice Burda) e Instagram (egli ancora non lo conosceva, ma è doveroso aggiungerlo) sono le Wunderkammer iconiche contemporanee.
9. Breve parentesi tecnica Se non esiste, in senso ontologico, un’immagine senza cornice, connotarsi con un «frame» molto riconoscibile è la grande intuizione grafica che al suo esordio ha accomunato Instagram alla Polaroid. Anche se oggi le esigenze commerciali della nuova proprietà hanno stravolto il senso originale di Instagram, quel semplice riquadro che ha reso inconfondibile il brand della foto immediata ha funzionato anche col più famoso social network visivo. Non a caso gli autori di Instagram si sono ispirati alla pellicola Polaroid sx-70, nel creare graficamente la loro app.
Nei pixel del minuscolo schermo, Instagram ha concentrato, come già la Polaroid aveva fatto con tecnologie analogiche, la sua scommessa fotografica, offrendo ai suoi fruitori, oltre alla possibilità di condividere in tempo reale i propri scatti, una serie di interventi personalizzati fatti di effetti e di filtri, facili da usare e per questo capaci di catalizzare milioni di utenti, e di stimolare il loro legittimo desiderio di creatività. Anche grazie a questa semplice trovata, immediatamente supportata e amplificata da una invasione di applicazioni terze,
Attualmente, e questo è solo l’effetto più superficiale e curioso, i kit di filtri «clicca e guarda» di Instagram sono disponibili per Photoshop, il software simbolo della foto professionale. Questi artifici vengono usati, per esempio, per inventare cromaticità inusuali che accentuano la drammaticità di un’immagine o che la possono rendere più aggraziata attraverso dominanti di colori e toni chiari; o ancora, alcuni filtri riportano la foto a sapori vintage, imitando ad arte le intonazioni delle pellicole anni Cinquanta o addirittura ricreano atmosfere ottocentesche, inserendo la trama polverosa dei dagherrotipi. Attraverso decine di possibili combinazioni, forse di modesto interesse per i professionisti, centinaia di migliaia di utenti impossibilitati ad accedere a programmi più sofisticati di manipolazione dell’immagine soddisfano la loro libertà creativa.
10. Elogio dell’imperfezione Così equipaggiata, col suo sobrio corredo di effetti speciali, Instagram offre all’universo iconico una visione inedita e potenzialmente destabilizzante della fotografia. Il messaggio subliminale della sua «mission» di basso profilo («fotografate e condividete») si diffonde come un virus contagioso, veicolato dalla condivisione planetaria del suo format social. Dalla sua nascita nel XIX secolo, la fotografia contribuisce a liberare la pittura: strappando ai pittori l’esclusiva del ritratto, li costringe a sperimentare nuove visioni e a rivoluzionare le arti visive. Sconfitta dalla foto nella competizione sulla verosimiglianza, la pittura accetta la sfida, affrontando già con gli impressionisti nuove rappresentazioni della percezione, fino a travolgere, con l’esplosione delle avanguardie storiche, secoli di tradizioni figurative affidate unicamente all’imperativo della «mimesis».
Nell’era informatica è la fotografia, ormai prossima a una nuova maturità grazie alla sua evoluzione digitale, che si affranca dai suoi limiti storici e subisce una radicale trasformazione: attraverso la rilettura della sua struttura semiotica, definendo una sua precisa autonomia espressiva e infine cercando un ruolo nel contesto socio-economico determinato dalla informatizzazione globale. Pierre Lévy già nel 1997, in era pre Instagram, si poneva il problema di come regolare i diritti di autore delle foto senza bloccare la diffusione capillare e gratuita delle immagini per scopi non commerciali. Anni dopo, i social network, in sinergia con l’uso di massa degli smartphone, hanno prospettato soluzioni che aggirano in parte la questione, spalancando le porte della produzione di immagini al maggior numero di persone e infrangendo nei fatti il copyright su tutto quanto viene postato in rete. Il caso dell’artista americano Richard Prince, che vende come proprie opere immagini altrui «colte» su Instagram (cfr. n. 334, set. ’13, pp. 14-15), è un’ipotesi estrema e provocatoria ma rivela una tendenza diffusa e sostenuta da convinte argomentazioni.
La «disintermediazione», cioè il fenomeno per cui i professionisti vedono minacciato il loro ruolo nella catena comunicativa, richiede ora che le competenze specifiche vengano trasferite nella organizzazione dell’intelligenza collettiva e nell’assistenza alla navigazione in rete. Instagram esprime pienamente questo concetto (di «intelligenza collettiva») che il filosofo Lévy utilizza come chiave di lettura delle sue considerazioni sul virtuale. La trasmissione e la condivisione di una memoria sociale non sono una novità, ma nel progresso delle tecniche di comunicazione si è ampliata notevolmente la portata dei fondi di conoscenza condivisibili. I dati online, amplificati dalle connessioni ipertestuali, si arricchiscono nella loro strutturazione attraverso l’elaborazione dei software. E addirittura, secondo Lévy, «ogni volta che viene prodotto un nuovo software si accentua il carattere collettivo dell’intelligenza».
La condivisione totale delle foto su Instagram sviluppa un evento che è risultato non solo del singolo ma di un collettivo intelligente. E una società interamente intelligente sarà sempre più efficiente di una società guidata intelligentemente. In questo senso, la fotografia postata e condivisa su Instagram è già una fotografia nuova: ogni singolo utente che condivide e viene condiviso partecipa a un processo che arricchisce e si arricchisce, proprio come succede in ogni linguaggio vero e proprio, anche e soprattutto attraverso gli errori e le imperfezioni di milioni di contributi anonimi. Questo insieme vitale, il cui rischio è di tagliare fuori una parte della collettività non ancora qualificata, si costruisce come un prezioso strumento di coordinamento non gerarchico, di messa in sinergia rapida di intelligenze e di scambio delle conoscenze, in cui il tutto alimenta il singolo e l’individuo mantiene la sua piena autonomia creativa. Forte del suo contesto collettivo, ogni potenziale, anzi virtuale autore di Instagram può scegliere di aderire o deviare da quel percorso che, nella tradizionale dialettica «significato-significante-referente», finisce col porsi il problema della connessione vincolante tra segno e oggetto. Liberata però dal digitale che fotografa «segni, segni di segni e non segni di realtà» come afferma il semiologo Paolo Fabbri, anche la «mimesis» può finalmente ritornare a essere una competenza specifica degli utilizzi scientifici e commerciali della foto. In questa prospettiva la fotografia interrompe il fragile e forzato dualismo finzione-realtà, e l’esito catastrofico della «derealizzazione» teorizzata da Baudrillard si allontana. Per usare i suoi termini apocalittici, allora, la realtà vera non rischia di soccombere annientata dalla finzione del virtuale, nella cornice folle di un «reale» che non esiste più perché il suo oggetto evocativo e seduttivo scompare.
Semplicemente, e finalmente, la fotografia può consapevolmente prescindere da esso, scegliendo anche di non averne più bisogno per esistere. Nella pratica, la sconfinata varietà delle gallerie di immagini che gli utenti Instagram condividono, offre loro la sensazione di ripercorrere con un solo sguardo d’insieme una sorta di compendio storico della fotografia. Il quale allarga il suo confine elitario, si rende democraticamente disponibile e viene riacquisito al patrimonio dell’intelligenza collettiva. Anche attraverso i filtri Instagram gli utenti intervengono per vivere in prima persona i percorsi creativi che hanno segnato la fotografia. Con il solo obiettivo di valorizzare tutte le risorse individuali, riconoscendo a questa varietà che accoglie ogni possibile interferenza o imperfezione il vero significato di cultura. In controtendenza rispetto a chi, tra i professionisti e gli addetti ai lavori già commemora la morte della fotografia per degrado e svilimento, Instagram vive quotidianamente l’utopia di accompagnare l’immagine fotografica verso una nuova dimensione contemporanea.
11. Dal culto della celebrità alla narrazione di una storia Da questa lunga riflessione è rimasto escluso un discorso sui contenuti, troppo vasto per essere anche solo accennato: come Wunderkammer contemporanea, Instagram si trova a catalogare qualsiasi soggetto del mondo reale conosciuto. Ce n’è tuttavia uno che proprio grazie allo «share» ha trovato nel social network un ruolo particolare e privilegiato. Andy Warhol, comunicatore di grande intuito prima ancora che artista, sosteneva che le immagini esistono per essere condivise. E più che a qualsiasi altra cosa l’essere umano aspira a socializzare con i suoi simili condividendo la propria storia. L’immagine, per sua natura, partecipa attivamente a questa operazione: e gli artisti, nel momento in cui diventano tali, intraprendono un processo che trasforma un individuo in una star. Prima ancora di Warhol, che teorizzò i famosi 15 minuti di celebrità per chiunque, già Picasso era arrivato alla sua autoglorificazione attraverso le immagini. E secoli prima, con una lungimiranza degna della sua fama di imperatore, Augusto aveva preteso il conio della sua effigie sulle monete romane, per imporre la sua popolarità e la sua autorità alle terre conquistate proprio attraverso la conoscenza diffusa del suo volto. Perché è attraverso il proprio volto che avviene il salto dall’anonimato alla cosiddetta celebrità. Lo smartphone ha sdoganato l’antica pratica dell’autoritratto fotografico, fornendogli gli strumenti e l’onore di un nuovo nome ormai acclamato, il «selfie». Instagram, e prima ancora Facebook, lo hanno consacrato, e si sono imposti come l’ultima frontiera dell’autocelebrazione, fornendo il contesto in cui l’individuo, a partire dal selfie, può presentare a tutto il mondo, e condividere con esso in tempo reale, la propria storia.
In un tripudio di egocentrismo, narcisismo ed esibizionismo, ogni utente del social network può mostrare in pubblico la propria attività privata, come prima era permesso solo ai principi, ai potenti, e successivamente agli artisti. E col selfie su Instagram diventa pratica corrente lo «storytelling» che attraverso la rappresentazione del proprio spazio personale (in veste privata o più spesso intima), sconfina in una forma più articolata e complessa di narrazione dell’io.
La comunità femminile su Instagram è la principale protagonista di questa tendenza, che ha fatto del selfie il perno delle proprie storie personali. La maggior parte delle quali ha un carattere molto intimo e alquanto disinibito. Pur non essendo permesso il nudo su Instagram, l’autoritratto femminile a tema erotico è particolarmente frequentato dalle giovani generazioni e rappresenta una percentuale rilevante tra le gallerie fotografiche con una manifesta intenzione creativa. Ma non solo. Attraverso il network le donne hanno costituito attorno al concetto di selfie una vastissima rete di scambio sociale e di solidarietà. Scatenando la prevedibile reazione di stampa e opinione pubblica, per le quali la questione di turno è se il selfie sia davvero strumento identitario di libertà, autostima ed emancipazione (i selfie col velo islamico sono ormai milioni) o se forse si tratta dell’ennesima, triste e risaputa concessione al commercio del corpo femminile.
Oggi il selfie è diventato oggetto di studio e soggetto di celebrate mostre d’arte (come «From Selfie to Self-Expression» in corso fino al 6 settembre alla Saatchi Gallery di Londra). Ma è ancora presto per fare bilanci. Nel frattempo, però, chiunque il 21 giugno, in 1.500 Paesi al mondo, può festeggiare il National Selfie Day.
Ringraziamo per la collaborazione Valerio Tazzetti della galleria Photo & Contemporary di Torino e Piercarlo Borgogno dello Spazioborgogno di Milano