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Jenny Dogliani
Leggi i suoi articoli«Il punto fondamentale è scattare la foto in modo che poi non ci sia bisogno di spiegarla con le parole». Chiara, essenziale, immediata. Era questa la visione che Elliott Erwitt (1928–2023) aveva della fotografia. Immagini universali e altamente rivelatrici, in equilibrio fra poesia visiva, acume ironico e precisione tecnica. Più vicino alla tradizione del neorealismo cinematografico e della letteratura minimalista che al fotogiornalismo puro, è stato definito poeta dell’istante per la sua capacità di trasformare l’attimo in racconto, sempre guidato da una profondissima empatia. Tra i fotografi più influenti del XX secolo, nato a Parigi da genitori russi di origine ebraica, ha trascorso l’infanzia tra l’Italia e la Francia prima di emigrare negli Stati Uniti nel 1939, in fuga dalle persecuzioni razziali. A New York e poi a Los Angeles ha studiato fotografia e cinema. Negli anni ’50 su invito di Robert Capa entra nell’agenzia Magnum Photos, di cui diventa una delle figure più rilevanti. Da allora Erwitt ha documentato i grandi eventi del Novecento: la Guerra Fredda, le contestazioni civili, i ritratti iconici di personalità come Marilyn Monroe, Che Guevara, Kennedy e Nixon, fino agli scatti più intimi e surreali che hanno come protagonisti cani, bambini o gesti ordinari.


Per la prima volta in Sicilia è possibile immergersi nel suo straordinario universo visivo, grazie alla grande retrospettiva organizzata nel Palazzo Reale di Palermo dalla Fondazione Federico II con il patrocinio del Ministero della Cultura e del Consolato Generale degli Stati Uniti d’America a Napoli.
«La Fondazione Federico II, spiega Gaetano Galvagno, Presidente dell’Ars e della stessa Fondazione, vuole essere protagonista della scena internazionale, proponendo al quasi milione di visitatori del 2024 un’importante offerta espositiva dal respiro cosmopolita. Con la mostra di Elliott Erwitt, il Palazzo Reale di Palermo continua a vivere un’appassionante stagione di arte contemporanea, regalando ai fruitori un intero secolo di cronaca e di raffinati studi che l’artista ci presenta attraverso il suo obiettivo fotografico».
La mostra, visibile fino al 30 novembre, è curata da Biba Giacchetti e Gabriele Accornero. Oltre 190 fotografie (110 stampe di cui molte in grande formato e 80 versioni digitali in video proiezione in HD) spaziano tra le sue serie più note da «Icons» a «Kolor», «Family» e «Self Portrait».
«Elliott Erwitt – spiega Biba Giacchetti, tra le massime conoscitrici di Erwitt a livello internazionale, non è stato solo un fotografo, ma un narratore visivo senza eguali, capace di trasformare l’istante in storia, il quotidiano in arte, l’ironia in poesia. Le sue immagini evocano in chi le osserva emozioni che si muovono su registri diversi, dalla commozione al sorriso, fino al divertimento più spontaneo. Scomparso nel novembre del 2023 all’età di 95 anni, ci ha lasciato un’eredità immensa: un archivio di fotografie che attraversano epoche, culture e sentimenti con un linguaggio universale, invitandoci a guardare il mondo con più indulgenza e meraviglia, mettendosi sempre al nostro fianco in quella leggerezza profonda che lui stesso definiva “The Art of Observation”».


Tra le opere esposte la serie «Icons» è quasi una dichiarazione d’intenti, un manifesto visivo che mostra come la fotografia possa essere, insieme, documento storico, opera d’arte e riflessione esistenziale. Il titolo stesso sottolinea il valore emblematico di ogni immagine: non semplici fotografie, ma icone del nostro tempo, capaci di parlare a ogni spettatore attraverso la forza universale dello sguardo umano. Il celebre scatto di Marilyn Monroe sul set di The Seven Year Itch, con il vestito sollevato dal vento, è immerso in un’atmosfera sospesa: Marilyn sorride, sembra consapevole della macchina fotografica, ma c’è una naturalezza quasi straniante. È star e donna comune allo stesso tempo, in una dimensione al confine tra pubblico e privato. Lo scatto che ritrae Jacqueline Kennedy nel momento più drammatico della sua vita pubblica, il funerale del marito e presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy, cattura invece la First Lady in un’immagine di straordinaria sobrietà e compostezza. Il velo nero sul volto, lo sguardo fisso ma velato di dolore, il portamento regale: ogni elemento della fotografia comunica un dolore trattenuto, quasi sacrale. L’immagine è un simbolo universale del lutto pubblico e privato, di una donna che diventa il volto di un’intera nazione colpita da una tragedia storica, un’immagine che ha nella discrezione e nella misura la sua grande potenza. A condensare i conflitti di un’epoca è anche la fotografia che ritrae il confronto tra Richard Nixon e Nikita Chruščëv alla American National Exhibition di Mosca, nel 1959. È uno dei più emblematici documenti visivi della Guerra Fredda, capace di condensare in un’unica immagine due ideologie contrapposte, in un momento di tensione, quasi teatrale, perfettamente rappresentativo dello scontro tra Stati Uniti e Unione Sovietica. I due sono intenti in un acceso scambio di battute sul progresso, la libertà e la supremazia tecnologica. I corpi si protendono l’uno verso l’altro, ma non si toccano, c’è distanza, ma c’è anche contatto visivo, sfida, controllo. È una coreografia involontaria ma eloquente: Nixon è determinato, Chruscev incarna una sicurezza burbera e disincantata. Nella sua apparente semplicità, l’immagine cristallizza una complessa tensione geopolitica in una sola inquadratura.


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Quello di Erwitt è uno sguardo partecipe ma al tempo stesso distaccato, che guarda il mondo con profonda umanità, cogliendone le fragilità e le verità taciute. Una smorfia, un gesto trattenuto, uno sguardo perso, la realtà sotto la maschera. C’è sempre una tensione, un ritmo, un colpo di scena. Mai retorico, non mitizza né il potere né l’innocenza, osserva tutto con la stessa profondità: i cani, per esempio, affettuose caricature dell’uomo e delle sue nevrosi. Erwitt lavora prevalentemente con macchine 35mm, come la Leica M3, compatte e discrete gli permettono di catturare momenti autentici e senza pose. Profondità di campo, simmetrie spontanee, riflessi e uso della messa a fuoco sempre calibrato gli permettono di valorizzare l’elemento narrativo. Il bianco e nero è il suo linguaggio principale, enfatizza la forma, sottrae e astrae. Esplora però anche il colore, come in «Kolor», serie in mostra, dove raffigura scene di vita quotidiana, vacanza e tempo libero con un colore saturo, spesso anti pittorico, più votato al contrasto che all’armonia, utilizzato quasi come un elemento critico rispetto alla società, al centro di un racconto ironico e disincantato del mondo.
«Family» è invece la serie che esplora le dinamiche familiari attraverso un registro colmo di affetto e tenerezza, ma mai di sentimentalismo. Erwitt cattura il microcosmo familiare come riflesso del comportamento umano universale. «Erwitt, spiega Gabriele Accornero, è come le sue fotografie: ironico, enigmatico, aereo. Dietro a tutto questo si percepiscono una grande personalità e un’acuta intelligenza, quasi spiazzanti. II valore artistico dell’opera di Erwitt pare raggiungersi quasi incidentalmente, non è mai perseguito e forse per questo è così spesso centrato».
La fotocamera è uno strumento di connessione emotiva che non ha risparmiato nemmeno se stesso, Erwitt si mette in gioco in prima persona nella serie dei «Self-Portrait», scatti surreali lontani da qualsiasi narcisismo, attraverso cui si interroga sul suo ruolo di fotografo, gioca con la sua identità, guarda il mondo al di là dello specchio.

