Provate a pensare a una gara sportiva in cui il premio invece di essere dato dagli organizzatori ai partecipanti viene offerto dai partecipanti all’organizzatore. Detta così sembra una cosa strana, ma è esattamente quello che è successo nel corso di circa cinque secoli, una gara ideale intrapresa inconsciamente da tutti i sovrani dell’Europa cattolica volta a offrire doni preziosi alla Basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme. I re di Spagna (d’Aragona, d’Asburgo o di Borbone che fossero), i Braganza del Portogallo, i Medici di Firenze, i Borbone di Napoli, Luigi XV e Maria Teresa d’Austria, insieme con molti privati cittadini e istituzioni pubbliche furono impegnati a commissionare ai migliori artisti a loro disposizione opere di soggetto sacro per «arredare» la Basilica del Sacro Sepolcro a Gerusalemme. Poco tempo dopo l’incontro di san Francesco col sultano Melek-el-Kamel in Egitto, nel secondo decennio del XIII secolo, piccoli gruppi di francescani si recarono in Terra Santa, finché, nel 1342, l’Ordine dei Frati Minori ottenne ufficialmente, sia dal papa sia dal sultano dei Mamelucchi, il privilegio perpetuo di custodire quei luoghi così importanti per la religione cristiana. Da allora cominciarono a pervenire ai «frati con la corda» una quantità notevole di oggetti diversi, dai codici miniati ai paramenti ricamati, dai paliotti d’altare ai lampadari pensili, dai vasi di farmacia ai dipinti e quant’altro potesse servire al culto e alla devozione e da loro gelosamente custoditi nella basilica gerosolimitana.
Una cospicua parte di queste opere è ora in mostra a Firenze e, col titolo «La bellezza del sacro. L’altare dei Medici e i doni dei re», fino all’8 gennaio 2025, è ospitata nei locali dell’ex Chiesa di San Pancrazio, che dopo un’intelligente ristrutturazione eseguita negli anni Ottanta dagli architetti Lorenzo Papi e Bruno Sacchi è diventata anche la sede del Museo Marino Marini. La scelta di questo ambiente è dovuta alla presenza al piano terra, nella Cappella Rucellai, del tempietto progettato da Leon Battista Alberti nel 1467, destinato a contenere le spoglie dei membri della famiglia, fedele riproduzione in scala minore della Basilica del Sacro Sepolcro così come si presentava nel XV secolo. La prima opera visibile appena scesa la scala che dal piano terreno porta all’ampia navata della chiesa paleocristiana, che è stata recuperata come spazio espositivo, è il cosiddetto Altare del Calvario.
Quest’opera, nata per custodire la Pietra dell’Unzione, quindi a forma di semplice parallelepipedo con quattro lati a due a due similari, fu donata alla Basilica nel 1588 da Ferdinando I de’ Medici, cardinale prima e poi granduca, come attestano gli stemmi coronati da corona e galero, applicati ai quattro angoli dell’arca. Gli scultori Giambologna e Pietro Francavilla eseguirono le sei formelle rappresentanti la storia della Passione, applicate simmetricamente sui quattro lati, mentre la fusione dell’insieme fu eseguita dalle abili mani del fonditore fra’ Domenico Portigiani, il cui padre, già responsabile della realizzazione del «Nettuno» di piazza Maggiore a Bologna, è noto per avere vivacemente bisticciato con l’artista fiammingo qualche anno prima. Questo elegantissimo unicum, pura espressione del Manierismo fiorentino di fine Cinquecento e realizzato negli Opifici di San Marco, come orgogliosamente è ricordato dall’incisione sul fronte, fu poi nell’Ottocento modificato dai francescani che, in base a nuove esigenze di culto, trasformarono la grande arca in un altare, smontando uno dei lati maggiori e inserendo le due formelle in un sostegno in ferro brunito, di stile arabo-barocco, e ponendo una mensa di marmo bianco al disopra.
Dalla munificenza di Pietro II del Portogallo proviene invece il bacile in argento sbalzato donato nel 1675 e ancor oggi usato solo una volta all’anno per la lavanda dei piedi il Giovedì Santo; di grandi dimensioni è decorato a forti baccellature verticali e presenta sul fronte il grande stemma dei Braganza. Il tronetto per l’esposizione eucaristica è una struttura mobile da porre sull’altar maggiore in occasione della cerimonia nota come «Quarantore», già in uso nel Medioevo, che consiste nell’esposizione di un ostensorio, con la relativa Ostia, all’adorazione dei fedeli per 40 ore consecutive, cioè per lo stesso tempo in cui il corpo di Cristo era rimasto nel sepolcro. Sono oggetti oggi piuttosto rari da incontrare, particolarmente usati nell’Italia meridionale, e la mostra ne presenta ben due, probabilmente tra i più belli mai eseguiti. Il primo risale al 1665, perfetto esempio di arte barocca, è dono di Filippo IV d’Asburgo, titolato come re di Spagna e delle Indie, di Napoli, del Portogallo e dell’Algarve: realizzato con un fondale concavo in argento sbalzato e parzialmente dorato, costellato da castoni di pietre preziose, delimitato ai lati da colonnine e puttini in bronzo dorato, un grande arco a tutto sesto che sovrasta l’insieme e nella parte inferiore al centro è posta una grande aquila bicipite coronata, il tutto per poter presentare ai fedeli il calice eucaristico nelle «40 ore» pasquali.
Questo tronetto fu eseguito nella bottega della famiglia Juvarra, dinastia di eccellenti argentieri, disegnatori e architetti operanti a Messina nel XVII e XVIII secolo, di cui Francesco, portato in Piemonte dalla Sicilia dalla lungimiranza di Vittorio Amedeo II, fu l’inventore della nuova immagine regale di Torino. Il secondo tronetto supera ogni immaginazione: è opera di un ignoto orafo napoletano, ma non è lontano dal vero ipotizzare la mano di Carlo Schisano o di Filippo del Giudice, due tra i migliori interpreti del Rococò napoletano. Realizzato nel 1755 per commissione di Carlo di Borbone e dei «benefattori del Regno», è in oro puro, finemente fuso, sbalzato, cesellato e corredato da rubini, zaffiri e smeraldi di grandi dimensioni che arricchiscono ulteriormente, come se ce ne fosse bisogno, l’insieme. Il tronetto esposto a Firenze è di dimensioni inusuali, ma soprattutto di assoluta eccellenza sia nella composizione sia nella realizzazione: il basamento di forma mistilinea sbalzato a rocaille e girali, con al centro lo stemma dei Borbone sormontato dalla croce di Gerusalemme in rubini, che a sua volta si innesta nella corona regale arricchita da rubini e smeraldi. Dalla base sale la schiena concava decorata in alto con una spettacolare conchiglia dal profilo triplo, in cui delle file di zaffiri di grandezza digradante ne sottolineano la struttura a ventaglio mentre ai lati salgono due grandi bordure doppie e sagomate, caratterizzate da forti rocaille e da grappoli d’uva a tutto tondo realizzati in granati. Su tutta la struttura è posta una grande corona chiusa dove i diamanti, gli smeraldi, i rubini e gli zaffiri abbondano, al cui colmo si posa il globo terrestre, con l’equatore evidenziato da un cerchio in zaffiri, e infine, al di sopra di tutto è collocata una croce segnata da rubini di grosso calibro. Leggendo quanto sopra potrebbe sembrare un’opera «esagerata», forse al limite del kitsch, ma garantiamo che vedendola dal vivo il tutto risulta armonioso, elegante, raffinato e rispecchia perfettamente lo spirito dell’arte rococò del pieno Settecento, dov’è obbligatoria la presenza del superfluo.
Evidentemente Carlo III voleva stravincere l’ideale gara che abbiamo ipotizzato prima, perché inviò a Gerusalemme l’anno successivo, in pendant col tronetto, un crocefisso in oro con lastronatura in lapislazzuli, alto 90 cm, posato su una grande sfera nello stesso prezioso e raro materiale, che a sua volta poggia su un gruppo di nuvole e cherubini in oro puro e su un meraviglioso basamento mistilineo con profusione di zaffiri e rubini. Di fronte a questi due oggetti l’espressione di «valore inestimabile» assume il suo preciso significato. Naturalmente il Sacro Romano Impero non poteva esimersi dall’offrire qualcosa di speciale ed ecco, allora, una lampada pensile di forma trilatera e corredata di puttini, anche questa in oro puro, realizzata dall’orafo viennese Johann Caspar Kriedemann in purissimo stile Luigi XIV e donata dall’imperatrice-consorte Maria Teresa d’Austria alla Basilica del Sacro Sepolcro nel 1758. Questo sontuoso omaggio probabilmente voleva essere una sorta di grazia ricevuta offerto per la vittoria nella battaglia di Kolín, avvenuta nell’anno precedente a opera delle truppe austriache del conte von Daun contro i prussiani di Federico il Grande, nel corso della Guerra dei sette anni. Da Venezia, tradizionale porto di partenza per i viaggi verso «outremer», pervenivano a Gerusalemme con regolarità tutte quelle merci di vario genere di cui i francescani avevano necessità per la vita quotidiana e che il mercato orientale non poteva offrire, quindi il rapporto con la Serenissima era continuo e anche i Dogi erano invitati a contribuire all’arricchimento della Basilica. In particolare è perfettamente documentato l’invio a più riprese, tra il 1669 e il 1675, di «un paramento sontuossissimo di veluto cremesino tutto ricamato de oro et argento, dire Pianeta e due Tonicelle, con suoi tre Camisi solemni et amiti con li cordoni di setta y oro», che possiamo ammirare in mostra in uno stato di conservazione pari al nuovo. Questi paramenti liturgici erano lavori estremamente raffinati che richiedevano lunghissimi tempi di lavorazione, basti pensare che in una giornata di lavoro si riuscivano a produrre solamente due centimetri di ricamo.
Tutte queste opere, insieme con altre che non sono state trasportate in Europa, dovrebbero trovare la collocazione definitiva nel Terra Sancta Museum che da molto tempo è in fase di realizzazione, ma la cui apertura, anche per ovvi motivi dovuti all’attuale situazione politica in Israele, continua a venire procrastinata nel tempo; attualmente si prospetta l’inaugurazione nel 2026. Abbiamo descritto solo sette oggetti degli oltre 100 presenti in mostra, ma speriamo di essere stati sufficientemente convincenti e di avere fornito dei buoni motivi per regalarsi un piacevole weekend a Firenze.