Jenny Dogliani
Leggi i suoi articoliIl 18 luglio alle 16,30 nel Centro di Attività Espressive Villa Pacchiani a Santa Croce sull’Arno si presenterà la nuova opera di Eugenia Vanni (1980) confluita nelle collezioni del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe di Villa Pacchiani. Si intitola «Accanto», è un progetto a cura di Ilaria Mariotti prodotto dal Comune di Santa Croce sull’Arno, in collaborazione di Crédit Agricole Italia, realizzato nell’ambito di PAC2022-23 - Piano per l’arte contemporanea, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. Il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe di Villa Pacchiani custodisce una collezione di oltre 3mila opere grafiche formatasi dal nucleo della donazione del Fondo Zancanaro, nel 1992, arricchita negli anni con lasciti, acquisizioni e con le opere vincitrici del Premio Santa Croce grafica istituito nel 2001, a cadenza biennale, e del Premio Ex-Libris- Piccola grafica (dal 2006). Diretto dal 2011 da Ilaria Mariotti, il Premio Santa Croce Grafica è un censimento di artisti contemporanei di generazioni diverse che utilizzano nella loro ricerca le tecniche calcografiche. Eugenia Vanni è stata la vincitrice della sesta edizione, nel 2011, con l’opera «Sturm und drang», già entrata nelle collezioni. Era una delle prime opere dell’artista con al centro una matrice «trovata», in questo caso un tagliere per uso domestico. La presentazione di «Accanto» (cui si può assistere da remoto tramite questo link) sarà anche l’occasione per riflettere sulla grafica contemporanea e sull’utilizzo di materiali della tradizione storico artistica nella ricerca di artisti contemporanei, coerentemente con la collezione del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe composta da grafiche d’arte, disegni, opere più tradizionali e ricerche di giovani autori. Accompagna la presentazione dell’opera un dialogo tra Silvia Bellotti (curatrice Fondazione Il Bisonte, Firenze), Elio Grazioli (storico e critico d’arte), Ilaria Mariotti (Direttrice Centro di Attività Espressive Villa Pacchiani), Annalisa Pezzo (storica dell’arte e bibliotecaria) e l’artista Eugenia Vanni, alla quale abbiamo rivolto alcune domande.
Come è nata e da che cosa è composta l’opera «Accanto»?
È costituita da 15 formelle realizzate ad affresco su un supporto di terracotta, sopra le quali è stato eseguito uno «spolvero» ottenuto da pagine di libri forate dai tarli. Il pigmento (ossido di ferro) ha oltrepassato questi fori e si è fissato sull’intonaco ancora fresco. Questo lavoro nasce da un piccolo ritrovamento; mi capita spesso che alcuni progetti nascano dagli incontri con oggetti da cui sono circondata. Casa mia non è mai stata un luogo asettico, ma stratificato e complesso, e al quale sono molto legata. Nel magazzino, ho trovato una mensola della libreria con dei testi dei miei genitori e dei miei nonni. Sfogliandoli mi sono accorta che erano stati attaccati da tarli e pesciolini d’argento i quali erano passati da un volume all’altro, scavando gallerie e forando alcune pagine. Avendo già lavorato in passato con la xilografia, proprio sui vuoti lasciati sul legno dai tarli, ho immaginato le pagine forate come delle matrici di carta, molto simili ai cartoni che si usano o si usavano per riportare i disegni sul muro da dipingere ad affresco.
È un’opera molto complessa sia tecnicamente sia concettualmente. Partiamo dal titolo, perché «Accanto»?
Il termine «Accanto» deriva dal fatto che questi libri sono stati ritrovati uno a fianco all’altro in un ordine legato solamente alla grandezza di ogni libro. È stata questa vicinanza molto stretta che ha fatto sì che gli insetti siano passati facilmente da un volume all’altro.
Come sono stati scelti i libri e che cosa rispecchiano di lei e della sua famiglia?
I libri in questione non sono stati scelti, sono stati rinvenuti. Sono molto diversi fra di loro come contenuti, li accomuna il fatto di essere delle vecchie edizioni, che vanno dalla fine dell’Ottocento agli anni Sessanta del Novecento, conservati tutti su di uno stesso ripiano della libreria. Ci introducono in un percorso letterario privato e familiare composto da romanzi di formazione, libri scolastici, narrativa, poesia e documentazione storica. Dai «I tre Moschettieri», alle «Lettere di Condannati a morte della resistenza Italiana», a un manuale di lingua inglese, fino a una vecchissima edizione dell’«Inferno» di Dante Alighieri, un sottilissimo atlante geografico, le prose e le poesie di Leopardi ecc. Diciamo che tutti insieme costituiscono anche un piccolo spaccato culturale di un’epoca. Sono libri che per molti anni (e in alcuni casi ancora adesso) hanno raggiunto le librerie delle case di molti italiani per motivi principalmente scolastici o di cultura generale. Erano archiviati in un luogo poco utilizzato della mia casa perché sono edizioni molto vecchie, molto usate e rovinate, escluse dagli scaffali ufficiali della libreria, non di certo per i loro contenuti, ma per le loro condizioni. Tuttavia erano ancora presenti fra le mura di casa.
Come sono state realizzate tecnicamente le opere?
Ho estrapolato da questi libri una pagina per ognuno, forata e mangiata dai tarli e l’ho utilizzata come «matrice di carta» per l’esecuzione di uno spolvero su intonaco fresco costituito da grassello di calce e sabbia. Lo spolvero è una delle tecniche che serve per riportare un disegno in scala 1:1 sulla parete da dipingere. Il disegno forato fa passare sul muro i pigmenti, come l’ossido di ferro o la povere di carbone, rivelando così i contorni della scena o del soggetto da dipingere. In questo caso ho utilizzato dei fori già esistenti, quindi dei vuoti spontanei realizzati dagli insetti e l’ho riportati sull’intonaco fresco con la tecnica dello spolvero. Le formelle hanno le stesse misure (altezza, larghezza, spessore) dei libri a cui appartiene la pagina. Solo il peso cambia: essendo formelle di terracotta sono molto più pesanti dei libri originali.
Sono opere fragili o difficili da conservare?
Sono opere destinate a conservarsi a lungo come gli affreschi se tenuti nelle corrette condizioni. Tuttavia, hanno bisogno di molta attenzione nel movimentarle perché è come se fossero dei pezzi di muro autonomi.
Qual è il suo rapporto con le tecniche di belle arti come l’affresco e i loro tempi più lenti?
Credo che alcune tecniche di belle arti abbiano semplicemente cambiato ruolo nei secoli e che la loro evoluzione non sia stata di tipo formale, ma concettuale. Una tecnica come l’affresco, ad esempio, inevitabilmente può acquistare un valore che esula da quello della rappresentazione ed evolversi verso una natura concettuale che ne sfrutta le caratteristiche relative al processo. In particolare, nel mio lavoro, procedimenti classici di belle arti vengono estremizzati nelle loro qualità meno rappresentative e più rivelatrici. Dunque non ho mai pensato a tecniche tipo l’affresco come antiche, ma casomai molto dilatate nel tempo perché hanno delle potenzialità ancora da esperire. Utilizzarle oggi fa porre l’attenzione su concetti come il tempo, il peso, lo spazio.
Qual è il ruolo della matrice nel suo lavoro?
La matrice, nelle arti visive, viene comunemente associata all’incisione e alla stampa in generale, ma anche alla scultura. Nell’opera che presento a Santa Croce le pagine forate le considero matrici. Intendo quindi la matrice in senso più ampio, specialmente se parliamo di matrice trovata o spontanea ovvero, non realizzata dall’artista in prima persona, ma frutto di processi casuali, come l’azione dei tarli. In quest’ottica la matrice è per me il mezzo privilegiato per registrare i micro accadimenti del mondo e le testimonianze del vivere: l’artista è un mezzo per rivelare azioni compiute da qualcun altro o da qualcos’altro e avvenute altrove. La matrice trovata può restituirci il senso del tempo, della traccia, della memoria, dove gli invisibili avvenimenti quotidiani vengono alla luce, si fissano sulla carta o su altri supporti, che a loro volta li custodiscono. Si scoprono così visioni inedite della vita quotidiana che sarebbero rimaste nascoste.
Che cos’è per lei il vuoto?
In pittura, come nell’incisione mi interessa la ricerca dello spazio vuoto. In pittura questa ricerca sul vuoto avviene sfruttando i bordi del quadro, grazie a un procedimento di esclusione e definizione dello spazio. Nell’incisione avviene invece con i pieni ed i vuoti ottenuti dalla stampa. In questo momento storico dove l’immagine è utilizzata e poi velocemente dimenticata, mi interessa creare degli spazi vuoti in più. Lo spazio vuoto nel mio lavoro avviene nella porzione, nel delimitare e nell’invertire il supporto con il soggetto, la figura con lo sfondo. La ricerca del vuoto dà vita a luoghi di osservazione su cui fermarsi, terre ferme su cui approdare.
Questo suo lavoro nasce in qualche modo dall’azione dei tarli. Il decadimento organico fa parte della materia e di molta arte contemporanea, Kiefer su tutti, ma fa parte anche della storia, che non potrà mai pervenirci che per frammenti. Qual è il suo pensiero a tale proposito?
Prendo spunto da questa domanda per affrontare (solo in parte) la questione del destino delle opere d’arte. Al riguardo mi fa piacere raccontare un breve episodio. Perché un conto sono i significati delle opere nel loro tempo, un altro conto invece sono le conseguenze che producono a lungo termine. Fra il 2011 e 2012 realizzai il ciclo di stampe chiamate «Sturm Und Drang»: erano dei taglieri da cucina utilizzati come matrici per essere inchiostrate e stampate su carta con l’ausilio del torchio calcografico. Ottenni dei paesaggi, delle tempeste e immagini astratte dove il segno era ottenuto spontaneamente grazie ai solchi lasciati sui taglieri di legno dai coltelli durante l’utilizzo quotidiano. I taglieri mi furono anche donati da amici e rappresentavano per me il concetto di condivisione, essi erano testimonianza di momenti di vita vissuta tramite pranzi e cene in compagnia. Nel lockdown del 2020, non potendo più vivere questi momenti di convivialità, ogni cosa stava acquistando un senso diverso. Così, un giorno, soffermandomi a riguardare alcune di queste stampe avvertii per la prima volta una sensazione piuttosto inedita e ammetto che fu un sentimento molto forte. Non saprei definirlo, ma credo di aver provato qualcosa di simile a una visione futura, come se avessi avuto davanti a me una sorta di reperto archeologico. La sua trasposizione in stampa era diventata anche una testimonianza. Mostrava le abitudini quotidiane di alcune persone in un certo periodo storico e questo aspetto stava diventando preponderante rispetto ai suoi elementi poetici e concettuali per i quali era stato creato. Li conservava, certo, ma la sua presenza era più importante di qualsiasi altra motivazione. A volte è sufficiente il mutamento di un contesto, un evento che segna le sorti di un popolo, per far sì che l’opera acquisti significati diversi e non del tutto previsti. Noi artisti pensiamo spesso alle opere fuori da noi come a qualcosa di lontano nel tempo, ma la percezione dei nostri lavori cambia sotto i nostri occhi. Con il tempo le opere d’arte sono destinate a diventare altro, anche frammento, ma in qualsiasi forma ci arrivino, ci daranno sempre da pensare.
Nel corso della realizzazione del progetto sono stati coinvolti studenti e cittadini, che hanno partecipato a una serie di laboratori con Eugenia Vanni. Il laboratorio sviluppato con gli adulti, in collaborazione con Grazia Chiarini, è stato dedicato all’autobiografia, con oggetti utilizzati come matrici, luoghi di ricordi e testimonianza dei segni lasciati tramite la propria esistenza. Il laboratorio con i ragazzi ha avuto invece al centro il lavoro al torchio. Anch’esso partendo da oggetti trovati utilizzati come matrici per costruire immagini legate alla memoria e al vissuto. Il progetto si concluderà in autunno con la presentazione degli atti della giornata di studi.
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