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Valentina Laviola
Leggi i suoi articoliL’11 dicembre si è tenuta a Roma, presso l’Archivio Centrale dello Stato, la tavola rotonda «Dalla progettazione alla storia del fare. Giornata di studi dedicata a Eugenio Galdieri architetto», organizzata dallo stesso Archivio e IsMEO (Associazione Internazionale di Studi sul Mediterraneo e l’Oriente, Roma). L’architetto e studioso (Napoli 1925-Roma, 2010) è stato celebrato nel centenario della nascita, ricordandone il prezioso lavoro a tutela del patrimonio architettonico (ma non solo) dei Paesi islamici. Attraverso i ricordi di chi ha collaborato con lui e l’ammirazione di chi si è formato sotto la sua guida, attraverso le carte, gli schizzi e i disegni raccolti nel suo archivio (donato dalla famiglia Galdieri all’Archivio Centrale dello Stato) si delinea l’alto profilo di Galdieri, testimoniato anche dal nutrito numero di pubblicazioni e di prestigiosi premi che ha accumulato durante il suo percorso professionale (basti ricordare il primo Aga Khan Award for Architecture, nel 1980).
Ripercorriamo le orme di questa figura con Maria Vittoria Fontana, già Ordinaria di Archeologia e Storia dell’arte islamica presso la Sapienza Università di Roma e fra i relatori della giornata di studi.
Qual è stato il suo primo incontro con Eugenio Galdieri?
Il mio primo incontro con Eugenio Galdieri fu a Isfahan, nel 1973. Appena laureata, ero parte della Missione Archeologica Italiana dell’IsMEO (Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente, Roma) che operava nella Moschea del Venerdì sotto la direzione di Umberto Scerrato. A richiedere la presenza di una Missione archeologica nella moschea era stato Eugenio Galdieri a seguito dei rinvenimenti in un saggio che, come responsabile scientifico per la conservazione e il restauro di questo edificio per conto dell’IsMEO sin dalla seconda metà degli anni Sessanta, aveva realizzato nel sottosuolo della grande sala cupolata nell’area sud della moschea. Avendo trovato i resti di un edificio sicuramente precedente a quello della fase abbaside di IX secolo della planimetria attuale della moschea, Galdieri chiese all’allora presidente dell’IsMEO, Giuseppe Tucci, la costituzione di una Missione archeologica. L’incontro con Eugenio Galdieri fu per me un grande momento: ne nacque a poco a poco anche una grande amicizia coltivata negli incontri nella sua casa situata in una posizione centrale, in via ʿAbbas Abbad, che condivideva con Raimondo Boenni, esperto incaricato del restauro dei dipinti safavidi della città.
Qual era il valore aggiunto dato dalla presenza di un architetto come lui sui siti islamici?
I suoi studi su decine di monumenti in Iran sono stati fondamentali. A Isfahan, in particolare, si dedicò sia a strutture di epoca safavide, quali la Grande Piazza reale e i palazzi di ʿAli Qapu, Chehel Sotun e Hasht Behesht, sia al monumento più importante della città, la Moschea del Venerdì. Ne indagò le strutture sia portanti sia coprenti di quest’edificio che, fondato in età abbaside, subì ampliamenti e trasformazioni fino ad età qajar. Ad esso dedicò tre importanti volumi corredati dai suoi eccezionali disegni, fra cui quelli della grande sala cupolata sud che egli dimostrò essere nata come padiglione isolato e solo in un secondo momento inglobato nella maglia ipostila della moschea. D’altronde, l’esperienza di Galdieri spazia dall’Afghanistan all’Iran, al Nepal, all’Oman. A Ghazni (Afghanistan), Galdieri si occupò, con Roberto Orazi, del consolidamento dei due celebri minareti ghaznavidi, delle mura della cittadella, del restauro del mausoleo timuride di Sharif Khan che fu poi convertito nel Museo d’Arte Islamica di Rawza.
Sezione-prospetto della cisterna nella città extra-mœnia di Hodeida, Yemen. Disegno di E. Galdieri
All’epoca chi o che cosa garantiva il coordinamento di queste iniziative di restauro e conservazione?
Il Centro Restauri dell’IsMEO, che Galdieri ha diretto dal 1985 (quando assunse il nome di Centro di Studi storico-tecnici per la conservazione dei monumenti) al 1988. Era il centro nevralgico, accanto al Centro Scavi dello stesso istituto, e fu un modello metodologico a livello internazionale grazie alla multidisciplinarietà della progettazione improntata al rispetto delle tecniche e della sensibilità estetica originali, affidando il lavoro sui materiali a maestranze locali che operavano sotto la sua costante osservazione.
Gli anni in Iran sono ricordati da più persone come un laboratorio formativo fondamentale, tuttavia Galdieri si dedicò con altrettanto slancio ai monumenti dello Yemen.
Negli anni Ottanta, Eugenio fu consulente dell’Iccrom (Centro internazionale di studi per la conservazione ed il restauro dei beni culturali) e dell’Unesco. Ha lavorato sulla moschea-madrasa Ashrafiyya di Taʿizz e la madrasa ʿAmiriyya a Rada. Negli stessi anni ebbe inizio il progetto per la conservazione di Sanaʿa al-qadīma, il centro storico della capitale yemenita, con il sostegno dei governi yemenita e italiano.
Negli anni Novanta avete condiviso l’ultima tappa del suo lavoro in Yemen.
Sì, nel 1997 fu istituita la Missione dell’Istituto Universitario Orientale (poi Università di Napoli «L’Orientale») a Hodeida, nella Tehama costiera yemenita, costituita da me e da Galdieri e che si arricchì in seguito di un terzo membro, Roberta Giunta. I risultati del lavoro svolto nel corso delle due campagne (1997 e 1999) sono confluiti in una pubblicazione in tre volumi dell’Istituto per l’Oriente «C.A. Nallino» dedicata a Eugenio Galdieri e in questo momento in stampa. Il contributo di Galdieri è stato essenziale come dimostrano i suoi numerosi e puntuali disegni (anche di edifici oggi scomparsi a seguito dei noti eventi bellici che negli ultimi anni hanno sconvolto il territorio yemenita). Fondamentale è la mappa da lui realizzata della città intra-mœnia di Hodeida su cui 150 edifici storici, otto moschee, un caravanserraglio, la pesa pubblica e l’unica porta urbica superstite sono stati posizionati.
Nel corso della giornata in memoria di Galdieri, è stato spesso sottolineato l’approccio da autentico studioso: la curiosità che lo portava tanto a indagare le fonti storiche quanto a camminare per le strade delle città nelle quali lavorava; la sua volontà di conoscere il territorio, la gente, di comprendere a fondo come e perché la storia di un luogo si fosse incarnata in determinati edifici e, grazie a ciò, rispettarne le caratteristiche intrinseche nel corso del restauro. A questo proposito, fu un vero pioniere nell’introdurre la tutela del patrimonio architettonico in terra cruda.
L’uso della terra cruda quale principale materiale di costruzione caratterizza diversi territori del mondo islamico ed è tipica delle aree iraniche. Occorre rispetto e conoscenza per trattare adeguatamente questi edifici e ancora più attenzione per condurre uno scavo archeologico senza rischiare di distruggere strutture fragili. Galdieri ha riconosciuto nell’uso della terra cruda una marca culturale, un valore che trascende la «povertà» del materiale (oggi quantomai attuale se ne consideriamo l’ecosostenibilità) tanto da fondare un’associazione (Aicat-Associazione Italiana tra i Cultori dell’Architettura di Terra) che tutela e valorizza le tradizioni architettoniche in terra cruda anche dell’Italia.
Eugenio Galdieri a Hodeida, Yemen, nel 1999. Photo: M. V. Fontana
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