Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine
Alessandra Mammì
Leggi i suoi articoliIl 19 ottobre del 2025 Pino Pascali avrebbe compiuto novant’anni e la Fondazione Pascali l’ha festeggiato. Lì, a Polignano a Mare (Bari), dove lui è nato e dove ha sede il suo museo, proprio il 19 ottobre ha aperto al pubblico la mostra «Stay Hungry, Stay Foolish» (fino al 3 maggio 2026), intensa personale di Roberto Cuoghi, uno degli artisti italiani più visionari, inafferrabili, totalizzanti: l’uomo giusto a ricevere il Premio Pascali 2025. Oltre a questo, sono state riallestite le sale permanenti con gli oggetti, i disegni, i progetti, alcuni rari video, i lavori preparatori per le produzioni televisive e gli esperimenti per le opere. Un laboratorio vivo per entrare nelle mente di un artista che non è mai veramente morto, nonostante l’incidente che a soli 33 anni l’ha improvvisamente ucciso sulle strade di Roma. È l’unico della sua generazione ad aver un museo e quel prestigioso Premio istituito subito dopo la sua scomparsa, che, come spiega Giuseppe Teofilo, attuale direttore della Fondazione, «non deve essere affidato a un artista che in qualche maniera ricordi l’opera o la ricerca di Pascali, ma a colei o colui che con il proprio linguaggio innova il mondo delle arti visive». La straordinaria energia e l’insaziabile sperimentazione di Cuoghi, fra i tanti nomi che nel corso degli anni sono stati premiati, lo rendono sia pure in una più contemporanea e distopica versione, tra i più «pascaliani». Stessa capacità di invenzione, metamorfosi, trasformazione della materia e costruzioni di mondi. Quelle cose che hanno reso Pascali unico e intramontabile. Come qui racconta chi l’ha veramente conosciuto: il suo amico, sostenitore, alleato e suo gallerista Fabio Sargentini.
Pascali l’artista che rivoluziona la scultura, Sargentini il gallerista che stravolge l’idea di galleria. Che cosa vi ha unito?
L’incontro con Pino Pascali fu l’incontro con lo spazio. Non credo che, senza di lui, sarei mai arrivato a sostituire la galleria tradizionale con quel Garage di via Beccaria che poi è stato il punto massimo della mia carriera. Un modello espositivo imitato ovunque nel mondo e che ospitava non solo oggetti ma la vita stessa: dai corpi dei danzatori ai cavalli di Kounellis. Ad aprirmi gli occhi su questo furono Pino e Simone Forti, che ho conosciuto il giorno dopo il funerale di Pino. Ma fu Pascali ad avere per primo l’idea di installazione ed era il 1966, durante la prima mostra che allestì da me in due diversi tempi, dove quelle che noi chiamavamo ancora sculture come le sue «Giraffe» o le sue «Balene» lui le aveva ribattezzate «Ingombro Totale», un’installazione ante litteram. Nella sua testa la scultura non bastava più, lo spazio era il valore aggiunto.
Perché avevate diviso la mostra in due tempi?
Si era inventato anche questo, due mostre diverse in due tempi diversi. Il primo occupato da rinoceronti e giraffe decapitate e dopo 15 giorni, ecco il mare e le balene. Quindi anche lo spazio non era sufficiente, voleva appropriarsi del tempo, creare attesa, giocare con la messa in scena. Del resto, fin dalla prima volta che sono stato nel suo studio, ho capito che era un performer. Si muoveva dentro le opere, le abitava, sembrava le animasse. Temevo che dopo la sua morte alle sculture sarebbe mancato qualcosa, che si sarebbero spente. Invece non è stato così, gli sono tutte sopravvissute, perché Pascali non era uno scenografo: era un artista. La scenografia ha fatto parte della sua formazione, ma attraverso il mestiere ha raggiunto un’altra dimensione e ha attuato una vera rivoluzione. In pochi mesi ha reso vecchia la Pop Art e ha usato per primo un elemento naturale come l’acqua.
Non a caso partecipa alla prima mostra dell’Arte Povera...
Le cose erano nell’aria, ma lui l’ha persino preceduta. Ricordo che l’idea di usare l’acqua nacque dopo la sua prima mostra all’estero. Avevo preso accordi con una galleria tedesca ed eravamo partiti per la Germania. Era il suo primo volo e Pino era entusiasta come un bambino. Lì incontrammo Udo Kultermann, un critico importante e molto informato sulla situazione internazionale. Ci parlò di un canadese che faceva sculture da cui sgorgava acqua vera. Pino non disse niente, ma al ritorno mi parlò delle «Pozzanghere» e della possibilità di ricreare l’acqua con l’acqua. Da qui nacque «Fuoco Immagine Acqua Terra», mostra storica. Era il giugno del 1967. Mentre «Arte Povera» di Germano Celant alla galleria La Bertesca di Genova fu in ottobre. Quindi arrivammo sei mesi prima.
Ma ha detto che le cose erano nell’aria.
È vero. Kounellis aveva già fatto da me la mostra con le gabbie di uccellini vivi e con lui la natura era entrata in galleria. Quando gli annunciai che Pino intendeva usare l’acqua, lui rispose con «La margherita di fuoco» e la fiamma ossidrica. Purtroppo nell’aria c’era anche confusione, così quando chiesi a Maurizio Calvesi il testo critico, lui mi impose di inserire in mostra anche Mario Schifano e Mario Ceroli. Sinceramente li ritenevo troppo legati alla Pop Art e quello che stavamo facendo per me andava oltre la Pop. Accettai perché all’epoca la presenza di un critico in una mostra era obbligatoria. Cercai però di riequilibrare aggiungendo Michelangelo Pistoletto e Piero Gilardi. Ma la vera rivoluzione era nelle mani di Pascali e Kounellis.
Calvesi amava Pascali?
Non credo. Di sicuro gli preferiva Ceroli. Del resto, Calvesi era il critico della galleria La Tartaruga, quasi un mentore di Plinio De Martiis. Noi non avevamo un critico di riferimento. Ero io l’autore delle mostre, a loro chiedevo solo presentazioni, ma più che l’acutezza critica amavo i bei testi e i miei preferiti erano quelli di Cesare Brandi.
Tra i critici di allora, chi in particolare amava il lavoro di Pascali?
Lo amavano tutti e lui si faceva amare da tutti. Nel 1967 la mostra nella galleria milanese di Alexander Jolas fu presentata da Cesare Brandi. Ma qualche mese dopo, quando Jolas gli propose di esporre a Parigi, Pino chiese un testo a Giulio Carlo Argan. Brandi si offese mortalmente e Pino si dovette letteralmente buttare ai suoi piedi per farsi perdonare. Comunque aveva ben presente l’importanza del potere mediatico, della strategia, della costruzione della sua stessa immagine… In questo fu estremamente contemporaneo.
Anche lei, Sargentini, precedeva i tempi. Più curatore che gallerista, sperimentatore di modalità espositive e di spazi diversi dai canonici…
La mia battaglia a Roma era superare la Pop Art. Ho avuto il merito e la fortuna di farlo con gli artisti giusti: Kounellis e Pascali. Gianni faceva quadri avendo in testa Franz Kline, Capogrossi o al limite lo spazio bianco di Twombly, ma di certo non il Pop americano. Mentre Pino creava mondi cambiando tecnica in ogni momento perché mi diceva: «Appena finisco una serie di opere, mi sembrano già cadaveri».
Ma il mercato non ama la discontinuità…
L’ha detto lei, io non sono un mercante, anche se qualcosa dal mestiere di famiglia l’ho imparato. Il primo incontro con l’opera di Pascali è stato con «Le Armi» a Torino. Era il 1966 ed ero in licenza dal servizio militare, sapevo che Plinio aveva rifiutato quelle opere e che Pistoletto aveva aiutato Pino a esporle nella galleria di Sperone. È stata un’illuminazione: di fronte ai «Cannoni», decisi subito di comprare tutta la mostra. Era una cosa che mi aveva insegnato mio padre (Bruno Sargentini, storico gallerista romano, Ndr): «Se ci credi, devi rischiare e prendere in blocco».
Suo padre amava Pascali?
Per niente, fu il motivo della rottura fra noi. Lui era un gallerista tradizionale, molto legato a Leoncillo. Io, invece, una figura eccentrica. Lavoravo con lui ma guardavo altre cose. Partivo con Enrico Crispolti per Parigi, io avevo 18 anni, lui 25. Tornavamo con quadri surrealisti. Sceglievamo opere straordinarie di Matta, Brauner fino alla mostra di Magritte che fece epoca… Ero giovane ma avevo un occhio esercitatissimo.
Individua un legame tra il Surrealismo e Pascali?
Non ci avevo mai pensato, ma forse andando alle radici… Quell’apertura all’ignoto, lo spaesamento, qualcosa di onirico. Di certo, quando ho scelto il lavoro di Pino, la galleria esponeva i surrealisti.
E poi quella galleria diventa stretta…
Pino e io ci dicevamo spesso che bisognava cercare un altro spazio, Andavamo in giro per Roma a far sopralluoghi. Un giorno Pino vede in via del Babuino un ex negozio con vetrine su strada: «Prendiamo questo!», mi grida. Fui io a dire no: «Non è abbastanza, cerchiamo qualcosa di più radicale, il tuo lavoro ha bisogno di qualcosa di più grande e diverso da tutto…». Purtroppo non fece in tempo a vedere il garage di via Beccaria perché morì nell’estate del ’68.
E subito dopo viene istituito il Premio Pascali, poi negli anni Novanta nasce il Museo a Polignano, mentre le sue mostre si moltiplicano nel mondo, la sua fortuna critica è in costante crescita e lo scorso anno, mentre la mostra «Arte Povera» alla Bourse de Commerce di Parigi gli dedica una sala intera, la Fondazione Prada a Milano gli rende omaggio con una vastissima retrospettiva…
L’istituzione del Premio e il museo a Polignano sono importantissimi. E anche le mostre internazionali naturalmente confermano la vitalità del suo lavoro. Ma non sempre ne colgono davvero lo spirito.
A che cosa si riferisce?
Per esempio quando si collocano le opere su piattaforme, isolandole, come alla Fondazione Prada. Il suo lavoro è «Ingombro totale», non si può circoscrivere e limitare. La rivoluzione di Pascali fu una nuova idea di spazio che per lui era un tutt’uno.
Quindi meglio ritrovarlo nel lavoro di artisti viventi anche se apparentemente lontani da lui?
In linea di principio è la cosa giusta. Anche se ammetto di non seguire più molto le nuove generazioni.
Si è mai chiesto come sarebbe cresciuto Pascali nel corso del tempo?
Se penso a che cosa è riuscito a fare in soli quattro anni… Come poteva reggere quel ritmo? Mi sono fatto l’idea che è morto quando doveva morire.
Altri articoli dell'autore
Da padiglione homeless alla grande (troppo?) sede all’Arsenale, da quasi vent’anni la nostra rappresentanza al più importante evento artistico del mondo non riesce a guadagnare un premio, forse anche a causa del continuo clima di rissa pure da parte istituzionale
Flavio Favelli apre le porte della sua dimora, da lui costruita e arredata con «tutte le cose che raccolgo da tempo e che costituiscono anche le mie opere: mi riportano al mio passato e alla mia storia mai risolta»
Eva Fabbris, il suo quarto direttore dalla fondazione nel 2005, racconta i primi vent’anni dell’istituzione napoletana sulla base che «l’opera d’arte la fa chi la guarda». La collezione? «È la nostra croce: poche opere, non è organica...»
«Un museo che non si evolve con l’evolversi delle sue discipline non può far crescere il proprio pubblico», spiega il direttore Andrea Viliani. «Apriamo al contemporaneo perché sia una forma ulteriore di accessibilità, confronto e incontro». Il futuro dell’ex Museo delle Arti e Tradizioni popolari? «Un possibile museo archeologico del Made in Italy: moda, design, enogastronomia...». E intanto le collezioni crescono



