Gilda Bruno
Leggi i suoi articoliLa nuova generazione di fotografi e artisti visivi guarda alla contemporaneità e ai suoi temi più critici con una consapevolezza e un desiderio di sperimentazione inediti. Futuro Presente vuole dar voce ai giovani talenti che rappresentano il futuro della fotografia; un futuro che è, forse, già presente. Sono infatti più urgenti che mai le tematiche affrontate dal lavoro di questi artisti visivi: dal cambiamento climatico alla decolonizzazione dello sguardo, dall’utilizzo degli archivi storici alla rilettura delle classiche pratiche di documentazione fotografica.
Felipe Romero Beltrán (Bogotà, 1992) concepisce come pilastri della sua pratica le complessità dei contesti sociali e il potere dello storytelling di promuoverne nuove interpretazioni. Molti dei suoi progetti portano in superficie le condizioni di vita di quelli che il fotografo colombiano definisce «corpi illegali», o «corpi migranti». Con questa espressione Beltrán si riferisce a coloro che, avendo abbandonato la propria terra in cerca di un futuro migliore, si ritrovano a vivere altrove illegalmente nella speranza di ottenere un permesso di soggiorno che consenta loro di restare nel luogo in cui sono.
Privati dei diritti e delle libertà di cui godevano nei rispettivi Paesi natali, i soggetti immortalati dal fotografo appaiono sospesi tra un passato sbiadito e un futuro al condizionale. Ritratti nella circoscritta quotidianità della loro situazione di stallo, i volti degli scatti di Beltrán e le ambientazioni spoglie che li incorniciano denunciano la maniera in cui diverse Nazioni, dalla Spagna («Reducción», 2019, «Dialect», 2020-23, e «Instruction», 2022) agli Stati Uniti («Bravo», 2020-), si sono rivolte alla giurisdizione per cercare di far fronte alle ondate migratorie, ostacolando l’integrazione dei migranti stessi.
Cresciuto durante la guerra civile colombiana (1964-2016), Beltrán lascia Bogotà nel 2010 per studiare all’Escuela de Fotografía Motivarte di Buenos Aires. Nel 2014 si sposta a Gerusalemme, dove durante la sua permanenza all’Accademia di Belle Arti e Design Bezalel sviluppa «West Bank» (2014): un’analisi visiva delle contraddizioni del conflitto israelo-palestinese. Dal 2016 residente a Madrid, dove ha conseguito un Master of Fine Arts in fotografia, Beltrán trae ispirazione dalla performance e dall’arte concettuale per invitare a una riflessione su chi spesso, agli occhi della legge, altro non è che un semplice numero.
A fine marzo ha vinto il Foam Paul Huf Award 2023, conferitogli sulla base della traiettoria artistica da lui portata avanti negli ultimi anni. In occasione dell’uscita del suo nuovo fotolibro, Dialect, edito da Loose Joints, abbiamo chiesto al fotografo di raccontarci della funzione che la raccolta adempie da un punto di vista sociopolitico.
Da dove nasce il suo interesse verso la fotografia documentaria?
Gli assi che guidano i miei progetti sono legati alla mia biografia di migrante e alla mia passione per il medium fotografico. Con Dialect mi sono focalizzato sulla relazione (e la tensione) che il corpo ha con il linguaggio e la legge, i quali categorizzano ciò che significa essere un migrante in Spagna.
«Dialect» reinterpreta le esperienze di un gruppo di giovani migranti che attendono che la propria permanenza in Spagna venga regolarizzata. Ci parli di questa serie.
Il progetto è nato grazie alla mia partecipazione a un laboratorio teatrale tenutosi a Siviglia durante il quale ho ripercorso la mia storia di migrante colombiano in Spagna e aiutato diversi partecipanti la cui lingua madre non era lo spagnolo a migliorare le proprie competenze linguistiche. In quell’occasione, ho incontrato i ragazzi che sono diventati i protagonisti del libro. Ai tempi erano minorenni, perciò gli parlai senza pensare di coinvolgerli in un lavoro fotografico. Divenuti maggiorenni, proposi loro di collaborare con me a una serie che avrebbe documentato i loro tre anni di attesa per il conseguimento del cosiddetto «arraigo»: un permesso di soggiorno rilasciato per circostanze eccezionali che consente di vivere e lavorare in Spagna anche a chi vi è entrato illegalmente.
Quattro elementi emergono dalla narrazione del libro: «l’intermezzo», «l’attesa», «il corpo» e «il dialetto». Qual è il nesso tra essi e la comunità immortalata in «Dialect»?
L’intermezzo, o «interlude» (dal latino «inter», tra, e «ludus», gioco), è uno degli assi su cui si sviluppa il progetto. Nel «non-luogo» all’interno del quale si trovano i volti che abitano «Dialect», il gioco è forse l’unico modo di sovvertire la legge, sospendendo il regime burocratico. Questo offre ai migranti diverse modalità di abitare il limbo in cui sono avvolti. L’attesa è un altro punto cardine della loro esperienza: i tre anni che «soggiogano» i migranti mentre aspettano che la loro posizione divenga legale hanno un impatto notevole sulla loro vita, soprattutto in giovane età. Il corpo e il dialetto operano come forma di resistenza a questo processo. La legge, la quale altro non è che un tipo di linguaggio, definisce che cos’è un corpo straniero in Spagna, arrogandosi la libertà di decidere che cosa esso possa o non possa fare. Il dialetto s’insinua quindi nelle crepe di quella logica, permettendo ai migranti di stabilire un rapporto diverso con lo spazio, sé stessi e gli altri.
Il volume raccoglie tre serie: «Recital», «Dialect» e «Instruction». La prima documenta i protagonisti della raccolta mentre recitano la legge costituzionale spagnola sull’immigrazione, la seconda parla delle loro vite all’interno del centro che li ospita, la terza infine è una metafora del percorso che i migranti affrontano per reinserirsi nella società dopo essere stati privati della propria libertà. Qual è la funzione di questi tre capitoli?
Documentare il «corpo migrante» partendo da approcci diversi arricchisce la comprensione della condizione di quest’ultimo, mostrandolo come un soggetto tanto complesso quanto intrinsecamente contemporaneo. Certo, il quadro non sarà mai del tutto completo, ma sfruttare svariati strumenti, tra cui fotografia, video, performance e testo, aiuta a portare alla luce i diversi lati che ne compongono la realtà. Purtroppo, per via del nostro rapporto immediato con la fotografia, spesso le immagini prese da sole portano a interpretazioni erronee, o a letture superficiali di alcuni eventi. Data la tematica delicata di questo progetto, per me era fondamentale affrontarla da un punto di vista concettuale e letterario. Dialect contiene anche sei saggi che, in dialogo con le immagini, inquadrano le storie alla sua base, in maniera più ampia e profonda.
Partendo dal libro, come pensa che la fotografia possa promuovere una rappresentazione più veritiera della società odierna?
La superficie fotografica, ossia l’insieme delle decisioni estetiche riguardanti la luce, l’inquadratura e i soggetti presentati in una data fotografia, è un aspetto fondamentale in Dialect. Non ho mai pensato a questo progetto come un lavoro esclusivamente ispirato all’esperienza migratoria, ma piuttosto come un corpo di opere che ritrae un gruppo di persone aventi un nome e un Paese d’origine che, a causa di una situazione specifica, si ritrovano a dover attraversare un limbo giuridico per tre anni. In tal senso, la modalità della rappresentazione vuole essere una dichiarazione di intenti e, di conseguenza, un commento politico sulle strutture dello Stato e sull’impatto che le leggi vigenti hanno sui migranti. Come tutte le prospettive, la mia prospettiva è parziale. Tuttavia, in essa metto a fuoco qualcosa di molto specifico, che può risuonare anche in altri contesti.
«Dialect» si oppone alla rappresentazione omogeneizzante dei migranti, restituendo loro una dimensione individuale. Che cosa spera di ottenere con questo progetto?
Mi auguro che la raccolta possa servire da piattaforma per intavolare una conversazione sulla questione migratoria, oltre che sulle implicazioni dell’immagine fotografica ai giorni nostri. Come spiegavo prima, Dialect prende forma a partire da fotografie all’interno delle quali ho racchiuso le intenzioni che si celano dietro di esse, piuttosto che verbalizzarle. In quanto soggetto e fotografo deliberatamente politico, il mio lavoro sarà sempre guidato dalle relazioni (e dalle tensioni) che caratterizzano le mie esperienze.
Dialect di Felipe Romero Beltrán è edito da Loose Joints
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