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Giacomo Guidi e i suoi 20 anni da gallerista anomalo

L’ex campione mondiale di scherma e gallerista, racconta il suo approccio dinamico all’arte contemporanea, fondato su creatività, cambiamento e dialogo con la città di Roma

Guglielmo Gigliotti

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«A Roma c’è più estemporaneità che contemporaneità»

Giacomo Guidi ha 42 anni e da quasi 20 apre gallerie che lasciano il segno. Da ragazzo è stato tre volte campione del mondo juniores di scherma. Da gallerista ha messo in piedi mostre di Kounellis, Paolini, Robert Barry, Mochetti, Piacentino, Nannucci, Nagasawa, Imi Knoebel, Tirelli, Vittorio Messina, Pietro Fortuna e altri big, che hanno reso gli spazi da lui aperti, chiusi, e poi riaperti in altra sede, una polarità del contemporaneo capitolino. Lo spazio più longevo è proprio l’ultimo, Contemporay Cluster, fondato nel 2016. Con alle spalle oltre 100 mostre e una quarantina di libri, nonché numerose collaborazioni con istituzioni, dalla Biennale di Venezia al Macro, la galleria, che ha inaugurato l’anno in corso con una mostra di Maurizio Mochetti, ospita al momento, e fino al 30 aprile, la collettiva a cura di Lorenzo Bruni «Oggetto, scultura, parola, disegno» (Cuoghi Corsello, Corsini, Cariello, Donzelli, Fortuna, Messina), e apre a metà maggio la mostra «Membrane» con opere di astrazione rigorosa di Bram Braam, Giovanni de Cataldo, Inma Femenía, Tycjan Knut, Vikenti Komitski e Alessandro Vizzini.

Questo tuo dar vita a spazi sempre nuovi, è dovuto a irrequietezza o spirito del mutamento?

Direi entrambi. Cambiare vuol dire cercare qualcosa di nuovo, avere necessità diverse. Il cambiamento fa parte del principio evolutivo della vita, rimanere sempre in qualcosa di molto conosciuto a me provoca noie. Cambiare uno spazio vuol dire cambiare anche il modo di pensare le mostre e fornire uno strumento superiore o diverso agli artisti con cui si lavora già da tempo. In America è assolutamente normale cambiare la sede ogni 4/5 anni in base un po’ al trend dei quartieri e a quelle che sono le possibilità progettuali diverse e i cambiamenti di visione… La galleria è come un tavolo del casinò. Se giochi sempre allo stesso tavolo, muori.

Da campione mondiale di scherma a gallerista. Cosa unisce questi due mondi?

Il mio atteggiamento lavorativo ha sempre avuto in sé un agone, in primis con me stesso, che mi porta ad interpretare la mia quotidianità come una performance sportiva, in cui pian piano alla soglia dei 43 anni e dopo 20 anni di lavoro, tendo di più a mettere in circolo tutta l’esperienza che ho maturato, nel bene e nel male, in questi due decenni.

Sembreresti avere una concezione molto creativa di galleria. In ogni progetto c’è sempre una parte di te. Per molti versi ricordi Fabio Sargentini all’Attico.

Il riferimento a Sargentini mi onora. Ma il fatto che in ogni mia mostra ci sia una parte di me, viene in genere visto come un’anomalia. Per me l’anomalia è riscontrare, in generale, una grande carenza di creatività e di cultura. Nonostante la grande quantità di proposta profusa, la qualità reale è raggiunta da pochi. In questo momento per me Roma è maestra di noia.

Le sedi dei tuoi spazi espositivi erano ubicate sovente in palazzi storici e nobiliari: Palazzo Cesarini Sforza, Palazzo Cavallerini Lazzaroni, Palazzo Brancaccio. Ora sei nel quartiere Ostiense. Cosa è cambiato?

La scelta di inserire le mie gallerie all’interno di palazzi storici e nobiliari è stata fatta perché per un periodo della mia attività ho ritenuto interessante evidenziare una correlazione tra la storicità del luogo e l’arte contemporanea. La comparazione mette alla prova l’artista. Ma ora sentivo la necessità di tornare ad uno spazio più pulito e meno caratterizzato. La nuova galleria di via Beccari non è sicuramente un white cube ma è uno spazio che ha in sé delle reminiscenze anni ’70, con un tocco underground che non guasta e che mi permette di respirare mentalmente dopo anni di progettazione molto serrata in spazi estremamente belli ma anche molto complessi.

La galleria, come istituto, sta entrando in crisi. Come vedi il futuro delle gallerie?

La galleria è stata messa in crisi da un atteggiamento sempre più speculativo da parte del collezionismo, Instagram ormai è il più grande contenitore di mostre e di opere d’arte che esista, e il calendario di fiere è estremamente serrato. Questi tre fenomeni nella loro totalità distolgono dalla frequentazione della galleria e dalla cultura della galleria, e soprattutto hanno modificato profondamente il dialogo tra collezionismo e gallerista. La risposta alla crisi è aumentare la qualità del lavoro.

Roma è città d’arte. Ma anche città d’arte contemporanea?

Roma ha sempre un po’ sofferto l’essere bastevole a sé stessa, in una certa forma lo è anche. Essere una città del contemporaneo non vuol dire non avere storia, anzi, avere tanta storia vuol dire avere tanto contemporaneo, ma il problema è che in questo momento, secondo me, in città c’è poca contemporaneità e troppa estemporaneità. Il vero coraggio non è nel rifiutare la propria provenienza, ma nel mettersi sulle spalle una storia e portarla avanti.

Guglielmo Gigliotti, 18 aprile 2025 | © Riproduzione riservata

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