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Matteo Fochessati
Leggi i suoi articoliDistanti, seppur di poco, dal punto di vista generazionale (Giorgio Morandi nasce nel 1890, Lucio Fontana nel 1899) e non legati tra loro da un rapporto diretto, nonostante la condivisa collaborazione negli anni Trenta con la Galleria del Milione e la comune partecipazione a diverse esposizioni, tra cui la prima Biennale di Venezia del dopoguerra nel 1948 e la mostra «Twentieth Century Italian Art» al MoMA di New York nel 1949, questi due protagonisti di primo piano dell’arte italiana del ’900 sono sempre stati considerati appartenenti a due mondi sideralmente opposti.
Tuttavia, come ben emerge dalla mostra «Morandi e Fontana. Invisibile e Infinito», aperta al CAMeC-Centro d’Arte Moderna e Contemporanea di La Spezia dal 12 aprile al 14 settembre, le loro ricerche, messe direttamente a confronto in quest’occasione, presentano significativi punti di contatto. È quello che ci conferma il percorso espositivo impostato da Maria Cristina Bandera (già curatrice delle due fondamentali monografiche di Morandi al Metropolitan di New York e al Palazzo Reale di Milano) e da Sergio Risaliti (curatore invece di due importanti mostre dedicate a Fontana) che, alternando i paesaggi e le celebri nature morte di Morandi con i «Concetti spaziali», le «Attese», i «Teatrini» e una «Fine di Dio» di Fontana, illustra come entrambi abbiano aspirato, con differenti strumenti operativi, a oltrepassare il reale: per esplorare l’infinito e raggiungere l’essenza dell’invisibile.
Pur partendo da linguaggi differenti e da diverse prospettive estetiche, il tempo e lo spazio appaiono infatti dilatarsi nelle loro opere. Morandi, autore prediletto di Roberto Longhi che nel 1934 lo incoronò come «uno dei migliori pittori viventi d’Italia», pervenne, attraverso i modelli linguistici di alcuni maestri del passato puntualmente individuati dallo storico dell’arte (Giotto, Piero della Francesca, Vermeer, ma anche Cezanne), a sviluppare la condizione mentale della sua pittura. E fedele a tale attitudine si avvalse di peculiari e ingegnose soluzioni operative: per i paesaggi il filtro ottico prodotto dall’uso di una finestrina di cartone e la visione zoomata offerta da un cannocchiale, per le sue composizioni con caraffe, bottiglie, vasetti e scatole la progressiva diminuzione degli oggetti e la graduale indefinitezza dell’immagine. In una direzione parallela, ma in qualche modo convergente (Risaliti scrive che a Morandi «era caro l’infinito dell’invisibile. A Fontana si rivelò l’invisibile dell’infinito»), quest’ultimo sperimentò una lettura della realtà ancora più ardita e innovativa, scardinando con i suoi buchi e i suoi tagli le tradizionali norme estetiche e svalicando in tal modo oltre i confini dell’opera. E se Morandi, secondo Longhi, scelse i soggetti delle sue opere come «simboli necessari, vocaboli sufficienti a evitare le secche dell’Astrattismo», Fontana si lasciò pure alle spalle la dimensione dell’astrazione, dopo aver superato il figurativo.
La mostra, attraverso 60 opere dei due artisti, provenienti da importanti musei italiani tra cui il Museo Morandi di Bologna, la Gam-Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, il Mart di Rovereto e lo stesso CAMeC, non solo propone, pertanto, un inedito e quanto mai stimolante confronto tra le loro ricerche, ma mette anche in evidenza le loro specifiche tangenze espressive: in questa comune ricerca dell’assoluto, Morandi elaborò, chiuso nella clausura monacale del suo studio e perseverando nella spoglia ed essenziale scelta dei suoi soggetti, una penetrante indagine dell’infinito; rompendo la prospettiva rinascimentale e aprendo una finestra oltre alla dimensione del reale, Fontana ci ha invece condotto a percorrere misteriose latitudini del cosmo e a penetrare, allo stesso tempo, negli ignoti e inesplorati mondi della spazialità artistica.

Lucio Fontana, «Concetto spaziale Teatrino», 1965, collezione privata