Alla libreria Marini di Roma, dal 14 dicembre fino al 25 gennaio, la mostra «I funerali di Fausto e Iaio» con fotografie di un giovanissimo Paolo Ventura, scattate quando aveva dieci anni, alle prime esperienze come fotografo. L’autore ci racconta quelle immagini ritrovate e come il suo percorso creativo e la sua estetica si siano evolute fino al suo primo lavoro autoriale, «War Souvenir» (2005). In occasione della mostra è stato pubblicato, da Danilo Montanari Editore, il libro d’artista I funerali di Fausto e Iaio.
Spinto da cosa, a dieci anni, nel 1978, partecipò ai funerali di Fausto e Iaio, militanti del centro sociale milanese Leoncavallo, vittime diciannovenni di un omicidio, di probabile matrice politica, ancora oggi irrisolto?
Non per coinvolgimento politico. Mi interessava come evento storico e di massa. Considera che i loro omicidi avvennero il 18 marzo 1978, due giorni dopo il rapimento di Aldo Moro. Era un periodo molto caldo, violento, di grande tensione. Tutti parlavano del loro assassinio e io volevo semplicemente partecipare a quello che percepivo come un momento storico. L’idea però di esserne semplicemente spettatore non mi piaceva, non mi bastava, quindi rubai la macchina fotografica di mio fratello e, in questo modo, mi sembrò di trovare un senso al mio stare lì.
Fu quella la sua prima esperienza fotografica?
Avevo scattato qualcosa prima, ma nulla di rilevante. Vivevo però in un contesto familiare molto stimolante e creativo: mio padre era un famoso illustratore di libri per bambini e mio fratello, più grande di me, studiava al liceo artistico e fotografava. Inoltre, ero attorniato da libri fotografici e, in bagno, mio fratello aveva allestito una camera oscura dove mi divertivo ad aiutarlo.
La documentazione fotografica del funerale non è una semplice cronistoria di un evento. La sua prospettiva è interpretativa, immersiva. Quanta consapevolezza compositiva ed estetica c’era nel suo sguardo di allora?
Da bambino, visto l’ambiente in cui sono cresciuto, il disegno e il senso della composizione era una specie di obbligo. Indubbiamente avevo la capacità fisica e mentale di costruire un’immagine e nella pratica ero già sensibile a una visione interpretativa. Non so se da parte mia, ai funerali di Fausto e Iaio, ci fosse una totale consapevolezza nel fare quelle foto, ma sicuramente qualcosa di istintivo già mi lavorava dentro.
Parallelamente alla massa di corpi che ha ritratto spicca una certa simbologia, come i pugni sinistri alzati, le bandiere, i fiori. C’è qualcosa che ricollega quelle sue prime fotografie al primo lavoro autoriale riconosciuto come tale, «War Souvenir» del 2005?
Ripensandoci a posteriori, posso dire che la scenograficità di quei dettagli fu la cosa che mi colpì maggiormente. Proprio questo valore scenografico è a tutt’oggi il cardine del mio lavoro. Mi ricordo che tutti quei pugni alzati mi riconducevano a un senso ideologico di appartenenza, a una forza collettiva, e soprattutto esteticamente era un’azione che rendeva perfettamente l’onda d’urto che stavamo vivendo in quel preciso istante e in quel periodo storico. Direi che l’anello di congiunzione tra il me giovane fotografo e l’autore che poi sono diventato è, inoltre, il profondo senso della storia e il desiderio di volerlo raccontare per immagini. Far parte di quell’evento collettivo, per me, aveva lo stesso fascino che per un altro bambino poteva avere lo sbarco sulla Luna. Sono sempre stato attratto dalla storia, dalla storia che vivevo, quella storia che poi sarebbe confluita nell’immaginario comune del nostro Paese. Ad esempio, quando facevo le elementari, ricordo vividamente la morte del commissario Calabresi perché gli spararono lungo il percorso che io facevo la mattina per andare a scuola. Era quindi un racconto di cui mi sentivo, in qualche modo, partecipe. E la visione che scaturiva da quel sentimento storico l’ho sempre portata con me. Per I funerali di Fausto e Iaio, stavo, probabilmente, cercando un mio modo personale per manifestarla, anche se non ero consapevole di essere alla ricerca di qualcosa. Con «War Souvenir», invece, trovai, finalmente, la mia espressione, la mia voce, attraverso la messa in scena.
E tra le immagini del funerale e «War Souvenir» ci sono delle immagini inedite che possano far comprendere meglio il raccordo?
Sì, al liceo iniziai a fotografare ricostruzioni di eventi tragici, della violenza che avevo vissuto durante gli anni di piombo, delle stragi, degli attentati, con mio fratello come soggetto che solitamente inscenava la sua uccisione per strada a Milano, con il sangue finto. Oppure una volta, in Toscana, mettemmo in scena la morte di un partigiano, sempre interpretato da mio fratello. Quindi, già a quattordici/quindici anni c’era già, in me, l’idea precoce di usare la fotografia come linguaggio per costruire un racconto, partendo non dal dato reale, ma dalla ricostruzione scenografica e storica. Della storia, dei suoi attori, dei suoi dettagli, ero già, a quell’età, un profondo osservatore.
Un altro lavoro che rientra in questa lettura di cui parla è anche «Buchi di violenza», che produsse, a vent’anni, in giro per l’Italia, fotografando da vicino i buchi e gli squarci prodotti da proiettili o bombe. Questo lavoro si avvicina alle immagini de «I funerali di Fausto e Iaio» per la prossimità con cui ritrae il soggetto…
Con «Buchi di violenza» quello che mi interessava maggiormente era la resa estetica della violenza, fotografando i buchi con un flash anulare. Però penso che anche per quel lavoro, come per «I funerali di Fausto e Iaio», si trattasse di un tentativo di trovare la mia strada espressiva. Arrivare, poi, alla soluzione della messa in scena di «War Souvenir» è stato un percorso a tappe; sicuramente il lavoro che ci si era avvicinato di più è stato quello prodotto con l’aiuto di mio fratello con cui inscenavamo eventi tragici.
L’immaginario degli anni di piombo, assorbito tramite le fotografie sui giornali o i servizi televisivi, è un immaginario che, da piccolo, ha subito casualmente o già aveva un suo pensiero a riguardo?
Penso che, da parte mia, ci fosse, decisamente, un pensiero a riguardo. Le fotografie degli anni di piombo le trovavo molto brutte, esteticamente e compositivamente. Inoltre, quel valore riservato alla fotografia come documento, come testimonianza, l’ho sempre rifuggito. Io cercavo un altro modo di intendere il linguaggio fotografico e, piano piano, ci sono arrivato.
Forse, quindi, con quel suo fotografare i simboli, al funerale di Fausto e Iaio, era ancora alla ricerca della sua strada, ma sapeva, però, perfettamente, quale non lo era…
Potrebbe essere.