Ci sono ancora sensibilità da esplorare, custodite dal silenzio della pittura di Vilhelm Hammershøi (Copenaghen, 1864-1916) e nelle sue tonalità vibranti e pacate, sempre declinate dalla luce obliqua che accarezza gli interni borghesi, i ritratti di spalle e i rarefatti paesaggi nordici, principali fonti di ispirazione dell’artista tra la fine dell’Ottocento e l’inizio della Grande Guerra. Da diversi anni il pittore danese è oggetto di una rivalutazione esponenziale sia da parte del mercato, un’opera che qualche anno fa valeva 200mila euro oggi in asta può raggiungere i 6 milioni, sia in ambito museale, tanto che gli sono già state dedicate importanti esposizioni a Parigi, Londra, Tokyo, Barcellona, New York, Toronto e Cracovia.
Ma anche la sua influenza sull’immaginario del nostro tempo sembra più che mai avviata verso una profonda affermazione, e grande dunque è l’attenzione per l’arrivo in Italia di un nucleo di una trentina di opere autografe, cuore e principale attrazione della mostra «Hammershøi e i pittori del silenzio», allestita nel Palazzo Roverella di Rovigo dal 21 febbraio al 29 giugno. Prima esposizione italiana dedicata al pittore in età contemporanea e unica sua mostra in Europa nel 2025, l’iniziativa, sostenuta dalla Fondazione Cariparo, è stata a lungo preparata dal curatore Paolo Bolpagni, che ha scelto di associare a opere rappresentative della suggestiva produzione del protagonista anche una quarantina di dipinti di autori meno noti, con la finalità di inserire Hammershøi nel contesto europeo in cui la poetica dell’artista maturò, e di indagare il suo rapporto con la cultura italiana.
Professor Bolpagni, quale fu il rapporto di Hammershøi con l’Italia?
Hammershøi fu attivo negli anni della Belle Époque e raggiunse una buona visibilità internazionale, facendosi conoscere anche in Italia, meta di diversi viaggi di studio e di lavoro, durante i quali poté ammirare l’arte del passato (in mostra è esposto un raro dipinto in cui ha raffigurato Santo Stefano Rotondo a Roma) e anche esporre alla Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma, dove fu premiato nel 1911 e notato da alcuni dei più bei nomi della critica come Vittorio Pica, Ugo Ojetti, Emilio Cecchi, che scrissero di lui. Ma, a differenza dei Paesi del Nord Europa, dove il pittore è sempre rimasto un esponente di spicco di un ambito simbolista ampiamente condiviso, in Italia dagli anni Trenta è scivolato in un lento oblio, ed è proprio da questa constatazione che ho costruito l’approfondimento su cui si fonda l’esposizione di Rovigo, concepita pensando al pubblico italiano.
Che cosa intende?
Il ragionamento che sta alla base del mio progetto curatoriale è che Hammershøi è pienamente comprensibile a un pubblico nordeuropeo perché in quei Paesi è ben conosciuta la pittura scandinava, che ha la sua radice nella pittura di interni di Vermeer, autore che fu per lungo tempo matrice e prima fonte di ispirazione di molti artisti che in Italia quasi ignoriamo. Per questo ho voluto portare altri esempi di quella «poetica del silenzio» che lui interpreta magistralmente, ma che ebbe un riverbero molto ampio, coinvolgendo autori scandinavi, francesi, belgi e olandesi, con i quali in mostra abbiamo costruito interessanti comparazioni su temi ricorrenti come appunto gli interni, le città morte, la solitudine e i paesaggi dell’anima. Accanto a loro (Émile-René Ménard, Henri Duhem, Lucien Lévy-Dhurmer, Charles Marie Dulac, Henri Le Sidaner, Charles Lacoste e Alphonse Osbert, i belgi Fernand Khnopff, Georges Le Brun e William Degouve de Nuncques, gli olandesi Jozef Israëls e Bernard Blommers, la svedese Tyra Kleen, i danesi Peter Vilhelm Ilsted, Carl Holsøe e Svend Hammershøi, fratello minore dell’artista) ho però voluto anche collocare diversi italiani come ad esempio Oscar Ghiglia, Vittore Grubicy de Dragon, Umberto Moggioli e Mario Reviglione.
In mostra c’è anche un approfondimento di Annette Rosenvold Hvidt sulle particolari cromie di Hammershøi e una riflessione sulle sue peculiari «figure di spalle».
Sono ritratti a tutti gli effetti poiché, anche se il soggetto non ci guarda, il coinvolgimento avviene proprio in quanto, vedendolo di spalle, ci immedesimiamo nel suo sguardo.
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Vilhelm Hammershøi, «Riposo», 1905, Parigi, Musée d’Orsay. © Rmn-Grand Palais / Martine Beck-Coppola/ Dist. Foto: Scala, Firenze