Flaminio Gualdoni
Leggi i suoi articoliLe grandi gallerie d’arte ci avevano abituato a operazioni di tipo «coloniale»: ovvero, promuovere i propri artisti attraverso le istituzioni pubbliche ma avendo ben chiaro, e privilegiando, il proprio obiettivo primario di business. Quest’estate una delle più potenti tra le grandi, Hauser & Wirth, ha concepito invece una proliferazione pacifica negli spazi italiani facendo piuttosto mostra di un’attenzione più affilata alla radice e alla specificità dei luoghi. Louise Bourgeois, Sonia Boyce, Rita Ackermann, Berlinde De Bruyckere, Pierre Huyghe, William Kentridge, Anna Maria Maiolino, Zeng Fanzhi, per dire, realizzano una serie di personali di qualità primaria, progettate come epicentri radianti di rapporti, occasioni, circostanze, dei livelli più diversi ma tese tutte sul filo rosso della ricerca del valore artistico.
A cominciare da Bourgeois, di cui a fianco della notevole mostra «Unconscious Memories» alla Galleria Borghese si allineano anche a Firenze «Do Not Abandon Me» al Museo Novecento oltre a «Cell XVIII (Portrait)» agli Innocenti e, a Napoli, una più generica mostra di disegni e sculture allo Studio Trisorio. A Palazzo della Ragione di Bergamo è di scena Sonia Boyce, esponente storica del British Black Arts Movement e premiata alla scorsa Biennale di Venezia, con «Thinking Like a Mountain», centrata su una videoinstallazione intorno al valore sociale del suono, del canto, tra esperienza individuale ed esperienza collettiva. Con Rita Ackermann Hauser & Wirth tiene in un certo senso a battesimo la nuova Fondazione Iris a Bassano in Teverina, nel Viterbese. La Fondazione è in Palazzo Altemps-Twombly, l’edificio rinascimentale dove Cy Twombly dipinse tra il 1975 e il 2008 e che è tuttora nelle disponibilità della famiglia, destinato a concentrare molte delle memorie del grande artista: Ackermann, dal canto suo, vi espone «Manna Rain», tesa riflessione su natura e mitologia, questo il suo legame fondamentale con Twombly.
Altri interventi riguardano, né altrimenti potrebbe essere, Venezia, nell’anno della Biennale. «Zeng Fanzhi: Near and Far / Now and Then», è una serie di lavori recenti il cui fascino principale risiede nell’allestimento suggestivo di Tadao Ando. In «City of Refuge III» all’Abbazia di San Giorgio Maggiore, Berlinde De Bruyckere, belga che rappresentò la sua Nazione alla Biennale 2013, crea installazioni di forte pathos e complessità. Dal canto suo «Liminal», concepita da Pierre Huyghe per la Punta della Dogana è un percorso complesso e concettoso, forse troppo esteticamente rifinito, fatto di finzioni che sono «veicoli per accedere al possibile o all’impossibile, ciò che potrebbe essere o non potrebbe essere».
Il coinvolgimento, e il godimento, maggiore si verifica in ogni caso in uno spazio all’apparenza marginale, l’Arsenale Institute for Politics of Representation, a Castello, figlio dello Iuav dove è ospitata «Self-Portrait as a Coffee-Pot» di William Kentridge. Vi si ragiona, con l’aiuto di Carolyn Christov-Bakargiev, sulla limitatezza dello studio dell’artista ma anche sul suo essere «una testa allargata, una camera per pensieri e riflessioni dove tutti i disegni, foto e detriti sui muri», e le qualità d’immagine diverse, i media differenti convocati e coinvolti, culminanti in nove episodi video, eccitano una riflessione ineludibile sui segni e la loro fabbricazione materiale, sulla consapevolezza necessaria e possibile della loro ricezione. Infine, sempre in zona Biennale, ecco il Leone d’Oro 2024 (con Nil Yalter) Anna Maria Maiolino, brasiliana e italiana per nascita, le cui introverse agglomerazioni di creta, già per merito di Diego Sileo al Pac milanese nel 2019, sono capaci di fare discorsi asciutti meglio di molte concioni.
Hauser & Wirth è in tutte queste esperienze, a vario titolo. Una volta tanto, è silenziosamente complementare alle ricerche artistiche, senza travestimenti da padrone del vapore.
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