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David Hockney, «Christopher Isherwood and Don Bachardy», 1968. Collezione privata

© David Hockney Photo Credit: Fabrice Gibert

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David Hockney, «Christopher Isherwood and Don Bachardy», 1968. Collezione privata

© David Hockney Photo Credit: Fabrice Gibert

Hockney: «Quando dipingo sono felice e rendo felici gli altri»

Nella Fondation Vuitton di Parigi 400 opere realizzate dal 1955 ad oggi, dalla tela all’iPad, compongono «un’autobiografia» che l’88enne David Hockney ha supervisionato soffermandosi soprattutto sugli ultimi 25 anni 

Non una retrospettiva, piuttosto una «vista retrospettiva personale» dell’opera di David Hockney, l’artista britannico più influente di sempre, maestro nell’arte di reinventarsi, che si è impegnato in prima persona, a 88 anni, nell’allestimento della grande mostra presentata dalla Fondation Louis Vuitton dal 9 aprile al 31 agosto, «David Hockney 25»: una sorta di autobiografia in 400 opere, realizzate tra il 1955 e il 2025, dalla tela all’iPad. Alcune sono diventate delle icone, come «A Bigger Splash» (1967) e «Portrait of an Artist» (1972). Così come i doppi ritratti: «Mr. and Mrs. Clark and Percy» (1970-71) e «Christopher Isherwood and Don Bachardy» (1968). Instancabile, Hockney (Bradford, 1937), che ormai vive stabilmente a Londra, ha realizzato anche dei lavori inediti, come l’ultimo, potente, autoritratto che chiude il percorso: «È la mostra più grande che abbia mai avuto, ha affermato. Sarà bello, almeno credo». A qualche giorno dall’inaugurazione, la direttrice artistica della Fondation Vuitton, nonché curatrice generale della mostra, Suzanne Pagé, che ha lavorato per mesi a stretto contatto con Hockey, confida a «Il Giornale dell’Arte»: «È lui il vero curatore. Hockney è fatto così, osserva, si impegna con molta professionalità in tutti i suoi progetti. Ha tenuto a supervisionare ogni sala, insieme a Jean Pierre Gonçalves de Lima, suo partner e studio manager, e al suo assistente Jonathan Wilkinson. Un giorno gli dissi che sarebbe stato bello avere un’intervista di lui, nel suo atelier. Alcuni giorni dopo, mi ha inviato un video in cui si filma, nel suo studio, e risponde alle domande che gli feci per preparare il catalogo. Ma c’è una cosa che mi ha colpito molto: nel video è vestito esattamente come nel suo ultimo autoritratto. Ricordando la sua età, e continuando a fumare, sempre provocatorio, dice: un artista si giudica solo alla fine. È stato commovente».

La mostra ha per sottotitolo una frase molto bella: «Do remember they can’t cancel the Spring». Un messaggio di speranza?

Ho voluto esporla anche sulla facciata della Fondazione. «Ricordati che non possono cancellare la primavera» è un messaggio straordinario che Hockney mi inviò dalla Normandia, durante l’epidemia di Covid-19, quando tutto andava male. E anche nel contesto attuale, di odio e di guerre, porta in sé una verità eterna: l’arrivo della primavera. È una lezione di vita, una saggezza che permea tutte le opere di Hockney e si impone come un’evidenza a ognuno di noi, con una positività che controbilancia i mali del mondo.

Data la vastità dell’opera di Hockney, quali aspetti vi è sembrato essenziale trattare?

La mostra copre tutta la carriera dell’artista, dal primo quadro, il ritratto del padre del 1955, quando era ancora nello Yorkshire natale. Lo seguiamo quindi a Londra, dove entra nel Royal College of Art. Nelle opere di questo periodo, con un linguaggio molto vicino a Jean Dubuffet e ai graffiti, Hockney manifesta la sua omosessualità, all’epoca vietata. Del periodo californiano ci sono opere immancabili: le piscine, i doppi ritratti, i grandi panorami, fino al monumentale «Bigger Grand Canyon» del 1998. Ma Hockney ha voluto soffermarsi soprattutto sugli ultimi 25 anni perché, secondo lui, all’inizio degli anni 2000 si è operata una svolta: la scoperta della fotografia digitale. Montaggi fotografici eccezionali ci sono stati prestati dalla Tate Gallery. Sono anche gli anni del rientro in Europa, degli acquerelli che riscoprono i paesaggi familiari dello Yorkshire, lo schiudersi dei narcisi in primavera. Uno spazio importante è anche consacrato al ritratto. Ma prima di entrare nel percorso cronologico, la mostra si apre su un preambolo, al piano terra, dove sono allestite solo opere emblematiche e dove, in un video, l’artista accoglie i visitatori. È il percorso che lui ha voluto.

David Hockney ha sempre mantenuto un equilibrio tra un linguaggio molto personale e una volontà di dialogare con la grande storia dell’arte. Come avete reso visibile questo dialogo con i maestri del passato?

All’ultimo piano, Hockney ha concepito un muro di immagini a partire dalla sua domanda di sempre: «Come hanno fatto gli artisti, di tutte le epoche, a tradurre lo spazio?». Ha voluto allestire una serie di tele, reinterpretazioni del Beato Angelico, Claude Lorrain, Cézanne, Van Gogh, Picasso, o ancora Hogarth, e due tele nuove, esposte per la prima volta: «After Munch» e »After Blake», che, mi ha detto, presentano per lui una dimensione più spirituale. Mi ha sempre colpito come le opere di Hockney possano essere al tempo stesso semplici, capaci di parlare a ognuno di noi, e sofisticate. L’artista posa uno sguardo, il più fresco, il più nuovo, come quello di un bambino, sulla natura. Tratta il colore nel modo più limpido, da grande colorista. Affronta temi universali. Ma dietro c’è uno spirito speculativo, erudito, ricco di riferimenti culturali. «After Blake» ha per protagonisti Dante e Virgilio.

Sono esposte anche opere create con l’iPad, che mostrano la capacità dell’artista di reinventarsi continuamente.

Hockney è un disegnatore, un pittore ammirevole, ma ogni volta che è emersa una tecnica nuova l’ha fatta propria e, a partire da essa, ha creato qualcosa di nuovo. È molto abile, conosce tutte le tecniche. Il tablet gli ha permesso di lavorare di notte, di cogliere la Luna nel buio. Ma mi ha confidato che al primo posto per lui resta la pittura.

Che cosa spera che i visitatori portino con sé al termine della visita?

Hockney dice che l’arte è condivisione. Un giorno gli ho chiesto: «Com’è possibile che, malgrado i drammi che hai attraversato, tu possa ancora dare così tanto?». E lui mi ha risposto, molto naïf: «Quando dipingo sono felice, quindi posso rendere felici gli altri». È questa l’immagine che vorrei che restasse: il dono di Hockney di trasmettere la felicità.

Luana De Micco, 06 aprile 2025 | © Riproduzione riservata

Hockney: «Quando dipingo sono felice e rendo felici gli altri» | Luana De Micco

Hockney: «Quando dipingo sono felice e rendo felici gli altri» | Luana De Micco