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«The Golden Tower» di James Lee Byars a Venezia nel 2017

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«The Golden Tower» di James Lee Byars a Venezia nel 2017

I fondi d'arte: chi sono, cosa fanno.

Gli «art funds» comprano per gestire e rivendere: questo settore di mercato si sta allineando a quelli di altri asset generando una graduale regolarizzazione

Riccardo Deni

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L’arte è una promessa di felicità. L’arte è di moda. L’arte fa fare soldi. L’arte è inclusiva. L’arte è per tutti. L’arte è dei ricchi. L’arte è uno strumento finanziario. Il mercato (dell’arte) è drogato. Tutte queste affermazioni possono essere vere contemporaneamente. Quello che va compreso e accettato è che possono esserlo senza che si generi scandalo, senza che la libertà dell’artista venga messa in discussione o che quella del collezionista venga cannibalizzata dagli operatori del mercato.

L’arte di cui su queste colonne presumibilmente leggerete sempre essere un dispositivo di conoscenza e di auspicabile progresso sociale è anche, e da secoli, un oggetto mercificato, un asset patrimoniale, un feticcio che legittima uno status. Non deve stupire quindi che oltre ai servizi di gestione del patrimonio associati ai beni d’arte, nascano anche strumenti finanziari e fondi che fanno dell’investimento illiquido in opere d’arte la loro missione.

Ma che cosa sono i fondi che investono in arte
Partiamo da una definizione: i cosiddetti «fondi d’arte» (art funds) sono generalmente fondi di investimento offerti e gestiti da privati ​​e dedicati alla generazione di rendimenti attraverso l’acquisizione e la gestione di opere d’arte. Sono solitamente condotti da una società di consulenza o di gestione di investimenti artistici, la quale riceve una commissione di gestione (di solito tra l’1,5 e il 3% del valore patrimoniale netto del portafoglio o del valore complessivo degli impegni di capitale assunti dagli investitori) e viene poi remunerata da una porzione dei rendimenti generati dal fondo stesso (solitamente una commissione sulla performance pari al 20% degli eventuali profitti realizzati dalla cessione del portafoglio artistico del fondo).

Il cosiddetto sottostante di tali fondi d’investimento varia da fondo a fondo, e sebbene questi differiscano per dimensione, massa gestita e focus di investimento, la loro strategia è di solito riconducibile a uno schema tradizionale di «buy and hold» (compra e tieni): ossia comprano opere, le tengono, e puntano a una vendita profittevole entro una certa finestra d’opportunità.

Teoria dell’angolo
«L’angolo» è spesso quello che un investitore cerca. Questo è di solito la somma dei fattori positivi o, se presenti, dei vantaggi concreti di cui il tale investitore può godere nel fare una certa operazione. I fondi di investimento sono quindi alla ricerca di «angoli» per fare operazioni. Per questo motivo si dotano di consulenti in grado di prevedere il comportamento di mercato relativamente agli artisti, alle gallerie, alle aste.

Il mercato dell’arte in questo senso ha delle peculiarità che i vari fondi devono sapere governare con perizia: il mercato è caratterizzato da una mancanza di organi regolatori, non esistono reali meccanismi di rilevazione di prezzi carenti, vi è una diffusa non trasparenza sulle transazioni e sul valore del mercato nel suo complesso e, infine, il valore di molti asset è soggettivo nonché di costituzione del tutto illiquida. Chi ama questo tipo di investimenti, d’altronde, sostiene che siano proprio queste caratteristiche a generare significative opportunità di movimento all’interno del mercato. Punti di vista.

Gli attori in scena
I fondi d’investimento in arte continuano a nascere, da una parte perché il mercato vede come desiderabili alcune forme di investimento illiquido, e l’arte è sicuramente dotata di molti elementi di fascino e appeal che piacciono agli investitori di oggi. A fianco di un comparto equity o di attività di venture capital sono frequenti investimenti in arte, meglio se organizzati mediante strutture fiscalmente efficienti e dotate di advisory board di professionisti. Il più famoso dei fondi è forse quello lanciato nell’ormai lontano 2000 dal guru Philip Hoffman, già deputy ceo e chief financial officer di Christie’s.

The Fine Art Group partì come fondo d’investimento (Hoffman finanziò e lanciò ben tre round in quindici anni) raggiungendo 1,3 miliardi di dollari di opere d’arte transate, e oggi si è evoluto in una piattaforma che offre servizi a vari livelli della catena del valore, da quelli finanziari alla consulenza, all’archiviazione di collezioni e loro valutazione economica. The Fine Art Group è stato un apripista per molti futuri operatori che hanno capito che l’arte offriva possibilità, non solo di reddito ma anche relazionali, molto concrete.

Ecco, quindi, che alla fine degli anni Dieci del Duemila parte un altro fondo di dimensioni rilevanti, l’Artemundi Global Fund (Agf), gestito dal collezionista Javier Lumbreras, il quale coagulò intorno a sé una serie di altri collezionisti con alto potere di spesa. L’attività del fondo, lanciato nel 2008, prese cinque anni dal 2010 al 2015, producendo un ritorno netto annuo di circa il 17%, arrivando a gestire asset per circa 200 milioni di dollari, con transazioni medie di acquisto di opere d’arte intorno al milione di dollari. Il grande merito del fondo Agf fu quello anche di produrre una consistente massa di contenuti di ricerca e analisi di mercato che per alcuni anni hanno costituito un elemento di raffronto per molti nuovi player del mercato.

Sulla stessa linea è nato il fondo lussemburghese In Art Fund. Lanciato nel maggio 2020, e pronto ad approfittare dei fenomeni post Covid, ha un obiettivo di raccolta tra i 50 e i 100 milioni di dollari, con accesso minimo piuttosto basso, fissato a 125mila dollari. L’obiettivo di ritorno è simile a quello dell’Agf, intorno al 15%, con commissioni annue del 2,5%, e un advisory board piuttosto eterogeneo, che include anche l’italiana Serena Baccaglini. Tutti questi fondi, di successo o meno, condividono l’approccio al tema dell’investimento in arte: «buy and hold», comprano per gestire e rivendere, generando un profitto. Il mercato però sta cambiando e qualcuno se n’è accorto.

Una nuova generazione
Non tutto quello che è tradizionale è male, ma un mercato fluido come l’arte e una platea di investitori eterogenea e spesso anagraficamente giovane viste le, comunque, ridotte dimensioni di investimento che l’arte costituisce rispetto ad altre forme illiquide come immobiliare o equity, obbliga a nuovi modelli. In questa direzione è andato un fondo come Masterworks che punta a divenire innanzitutto una comunità di riferimento per investitori, prima ancora di un canonico fondo, il cui accesso è regolato esclusivamente dall’avvio di un investimento. Masterworks è quindi una piattaforma per l’acquisto e la vendita non già di opere d’arte, ma di partiture di esse. In pratica di quelle che comunemente chiamiamo «azioni».

L’utente (perché qui più che investitore va obbligatoriamente utilizzato un termine proprio dell’economia digitale: user, utente appunto) può quindi creare un portafoglio diversificato di opere d’arte. I manager di Masterworks identificano le opere d’arte migliori al miglior prezzo e le acquistano (buy) con i fondi degli utenti. A questo punto le cartolarizzano e permettono agli utenti di investirci. L’opera viene tenuta (hold) dai tre ai dieci anni, e alla vendita, l’investitore riceve i proventi al netto delle commissioni. Lo schema di «buy and hold» non cambia, ma a variare è il modello, molto più dinamico, più digitale e quindi, oggi, più interessante per molti investitori di nuova generazione.

Nella stessa direzione va il servizio di art advisory di Saatchi Art che mette a disposizione una squadra di esperti gratuita per costruire una collezione «ad personam». Non solo, su questa base Saatchi Art è nella posizione privilegiata di vendere ulteriori servizi sempre più specifici per i collezionisti. Da qui il salto verso altre forme di credito è molto breve, come quello costituito dai prestiti con opere d’arte a garanzia (oggi arrivano mediamente sino al 50% del valore dell’opera, a testimonianza dell’illiquidità del mercato), offerti già da molte banche di investimento in tutto il mondo.

Conclusione
Questo articolo non mira a consigliare l’arte come investimento (chi scrive lo considera, al limite, un desiderabile eppur facoltativo effetto collaterale dell’attività di un collezionista), né a consacrare i fondi d’arte come una sicura modalità di investimento. In generale è bene comprendere che l’arte per molti è ormai un asset pari a un immobile o un diamante, che esistono forme di cartolarizzazione delle opere d’arte e che sempre di più il mercato cercherà il profitto con modalità già viste in altri mercati, cosa che necessariamente porterà a una progressiva regolamentazione dello stesso. Infine, per chi considera l’arte come puro dispositivo culturale, tale può rimanere. E ancora, per tutti (chi investe e chi la ammira nei musei o nelle gallerie), la regola rimane la stessa di sempre: amarla, studiarla, guardarla con occhio critico e, se interessati al mercato, chiedersi sempre chi sta dietro al quadro.

«The Golden Tower» di James Lee Byars a Venezia nel 2017

Riccardo Deni, 24 settembre 2021 | © Riproduzione riservata

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