Lori Lako

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Lori Lako

I non sogni di Lori Lako a Villa Pacchiani

Per il nuovo capitolo del programma espositivo del Comune di Santa Croce sull’Arno nell’ambito di «Toscanaincontemporanea2024», in mostra l’artista albanese classe 1991, in Italia dal 2009, con una serie di video, fotografie e installazioni e un’opera inedita realizzata con la comunità albanese della cittadina toscana

Un approccio multidisciplinare per indagare l’esistenza postmoderna, anzi, il «post tutto» che caratterizza il mondo di oggi. Racconti, memorie, spunti letterari e filosofici, fotografia e intelligenza artificiale fluiscono in narrazioni multimediali che ci mettono a tu per tu con la verità storiche e la falsificazione mediatica, legando diverse generazioni in una percezione nella quale la differenza tra reale e virtuale è sempre più sfumata e meno importante. È l’opera di Lori Lako, artista albanese classe 1991, in Italia dal 2009, protagonista del nuovo capitolo del programma espositivo del Comune di Santa Croce sull’Arno nell’ambito di «Toscanaincontemporanea2024». Curata da Ilaria Mariotti, intitolata «È da un po’ che non sogno di volare» e inaugurata il 9 novembre, la mostra personale di Lori Lako è visibile nella Villa Pacchiani Centro Espositivo in piazza Pier Paolo Pasolini a Santa Croce sull’Arno fino al 15 dicembre. Realizzata in collaborazione Crédit Agricole Italia e Associazione Arturo e Comune di Santa Croce sull’Arno (che aderisce rete Terre di Pisa), la mostra è corredata da attività formative e percorsi didattici rivolti al pubblico e alla comunità composita e complessa che abita la città toscana nota per la lavorazione delle pelle, dove il 23% degli abitanti sono migranti provenienti da 50 Paesi.

Come si fondono nel suo lavoro biografia personale e narrazioni collettive?

Il mio lavoro parte spesso dalla mia storia personale, sia quella vissuta in prima persona, sia quella che mi precede e che è arrivata a me tramite racconti, incontri e oggetti. Il passaggio dal personale al collettivo mi permette di ricostruire una narrazione aperta, capace di confrontarsi con il qui e ora. Per esempio in «Exotic Memories» (2019), che prende avvio da una mia foto scattata nel 1996 nello studio fotografico della mia città, ho raccolto immagini di persone che, come me, avevano posato di fronte a quello stesso fondale, molto in voga in quegli anni. Attraverso un lavoro di ricerca e collage ho cercato di ricostruire quel fondale come esempio di immaginario collettivo e stereotipo di rappresentazione. In «Assuming we can reach the sky» (2022) ho raccolto le cartoline e fotografie degli Stati Uniti che alcuni parenti emigrati negli anni Novanta/inizi Duemila mandavano ai familiari rimasti in Albania.  Quei racconti e quelle immagini prodotte da chi aveva attraversato il mare in tempi diversi hanno dato la possibilità di costruirsi un immaginario a chi avrebbe desiderato vedere l’America senza avere per lungo tempo la possibilità di viaggiare. In quest’opera, le «cartoline» ricevute si mescolano ad alcune fotografie e a un video da me girato con lo smartphone durante il mio primo viaggio in America. Nel video riprendo lo sviluppo verticale di alcuni dei grattacieli più alti di New York per tornare poi con lo sguardo nell’infinito del cielo.

Una veduta della mostra di Lori Lako a Villa Pacchiani, Photo: Ela Bialkowska, OKNO Studio Photo courtesy Comune di Santa Croce sull’Arno

Come e quando è arrivata in Italia e che impatto ha avuto sulla sua storia di cittadina albanese l’Occidente capitalistico?

Sono nata il 23 febbraio 1991, tre giorni dopo l’abbattimento della statua del dittatore Enver Hoxha. Non ho vissuto in prima persona il periodo della dittatura comunista, ma si può dire che sono nata nei primi mesi del passaggio verso l’economia di mercato. Quelli erano anni in cui il Paese, ormai senza una direzione, si trovava in una situazione di caos, seguito da anni molto difficili, soprattutto dal punto di vista economico, con l’apice nel 1997, anno della guerra civile conseguente agli schemi piramidali che attuavano la strategia del sistema Ponzi. Sono arrivata in Italia nell’agosto 2009 per studiare all’Accademia di Belle Arti. Da qualche mese, l’Albania aveva presentato domanda per l’adesione all’Unione Europea (di cui non fa ancora parte). Nel 2010 è avvenuta la liberalizzazione dei visti Schengen per i cittadini albanesi, che dopo un periodo di isolamento durato diversi decenni potevano finalmente viaggiare liberamente. Il modello occidentale capitalistico l’Albania lo aveva già abbracciato progressivamente dal 1997, con tutte le contraddizioni, la violenza e le problematiche di un Paese con una propria storia.

Che rapporto ha con l’arte occidentale?

Da quando ero bambina ricordo che già dalle prime lezioni di storia si diceva che il mio Paese, per la sua posizione geografica, era un ponte tra Occidente e Oriente. Dopo la caduta della dittatura, l’Albania ha guardato quasi esclusivamente all’Occidente e di conseguenza al modello occidentale, anche in ambito artistico. È stato un riferimento importante per me che non ho vissuto il periodo della dittatura. Lo stesso modello è stato significativo, per ragioni diverse, anche per la generazione di mio padre, un pittore formatosi negli anni ’70 e che dopo gli anni ’90 ha dovuto confrontarsi con ciò che era accaduto nel periodo dell’isolamento del Paese dall’ Occidente: le rivoluzioni e le avanguardie.

Com’è nata la mostra e come sono stati scelti i lavori da esporre?

La mostra è nata dal confronto con la curatrice Ilaria Mariotti e i lavori da esporre sono stati scelti in modo da poter creare un percorso che dimostri gli interessi ricorrenti nel mio lavoro e importanti per la mia ricerca artistica. Il percorso attraversa alcune riflessioni che mi hanno accompagnata negli anni: la possibile manipolazione dell’immagine, la costruzione di stereotipi, la faticosa ricerca di una rigenerata identità nazionale che si confronta con la globalizzazione, la memoria personale e collettiva, il paesaggio postindustriale e la riattivazione dello spazio attraverso riti e azioni.

 

«Schwimmflügel – I haven’t dreamed of flying for a while» (2019) di Lori Lako Photo: Ela Bialkowska, OKNO Studio Photo courtesy Comune di Santa Croce sull’Arno

«Assuming we can reach the sky» (2022) di Lori Lako Photo: Ela Bialkowska, OKNO Studio Photo courtesy Comune di Santa Croce sull’Arno

Com’è stata accolta dalla comunità di Santa Croce sull’Arno e come è nata l’opera realizzata ad hoc?

L’opera «Woven Echoes» è nata dal dialogo avvenuto tra me e alcune donne di origine albanese che vivono nel territorio. Ho cercato persone che avessero ancora in casa manufatti come arazzi, ricami e lavori all’uncinetto realizzati in Albania e che nel momento del trasferimento in Italia o nei loro viaggi di ritorno in Albania avessero deciso di portarli con sé. La mia idea era di raccogliere racconti su che cos’è importante portare con sé in un momento di grande cambiamento e su come gli oggetti possano esprimere un vissuto ricco e articolato. Attraverso di loro è stato possibile parlare di moltissime cose personali che hanno a che fare con la specificità delle vite di ciascuna di queste persone. Queste donne sono state sin da subito molto disponibili e mi hanno accolta generosamente nelle loro case. Senza di loro, questo progetto non sarebbe stato possibile. A tal proposito vorrei porgere un ringraziamento particolare a una di loro, Adriana Prifti, che è stata la prima con cui mi sono confrontata. I suoi kilim, insieme ai suoi racconti, sono stati fondamentali per farmi capire il potenziale di questo lavoro.

 «Is there any alternative?» (2023) è l’opera che apre la mostra. Quali diversi modelli comunicativi ed economici convivono in questo lavoro e come?

L’opera si ispira al libro Realismo capitalista dello scrittore, critico musicale, filosofo e attivista Mark Fisher. Fisher fa un’analisi acuta del mondo in cui viviamo, riflettendo su come il capitalismo abbia occupato ogni area della nostra esperienza quotidiana e si interroga su come sia possibile combatterlo. La sua riflessione attraversa esempi presi non solo dalla politica, ma anche dal cinema e dalla narrativa di fantascienza, dalla musica pop e dalla televisione. Sentivo l’esigenza di un atto creativo che scaturisse proprio dall’esperienza che mi aveva procurato la lettura di questo testo. Così è nata «Is there any alternative?», opera in cui la parola lascia il posto al gesto. Un gesto non complementare, ma fondamentale, in quanto viene usato dalle persone non udenti e costituisce per loro l’unica forma di comunicazione. Ho deciso di usare la lingua dei segni non tanto per sostituire le parole, ma piuttosto per bypassarle. Insieme alla lingua dei segni, il lavoro «parla» anche la lingua di internet e dei social media, poiché l’atto di dare fuoco alle unghie allungate è stato preso in prestito da un video visto su Instagram, in cui un influencer, per rinnovare la sua vecchia manicure, aveva scelto questa azione spettacolare, che in poche ore le ha moltiplicato a dismisura le visualizzazioni.

«Nationalism, you wild beast» (2023) è un perfetto esempio di come nella sua pratica confluiscano stili, linguaggi e iconografie diversi, che vanno da tecniche più tradizionali al videogioco.

La mescolanza tipica del postmoderno sta raggiungendo livelli sempre più elevati in un momento storico come il nostro, che potremmo definire quasi un «post-tutto». Parto da questo presupposto perché mi rendo conto che spesso questa mescolanza nel mio lavoro non è completamente voluta o controllata: è come se fosse il lavoro stesso a suggerirmelo.

 

Una veduta della mostra di Lori Lako a Villa Pacchiani Photo: Ela Bialkowska, OKNO Studio Photo courtesy Comune di Santa Croce sull’Arno

 In «Does AI dream of extinct birds?» (2023) utilizza anche l’intelligenza artificiale. In che modo la usa nel suo lavoro?

Nel caso di «Does AI dream of extinct birds?» si tratta quasi della creazione di un cortocircuito. Il generatore di immagini AI possiede una sua estetica visiva quando non gli vengono fornite richieste specifiche. Certo, gli si può anche chiedere di realizzare immagini del passato, con un’estetica diversa, ma in questo caso si tratta di una richiesta che lo porta indietro nel tempo, nel lontano Ottocento, agli albori della fotografia, mentre gli si domanda di sfogliare il presente e immaginare il futuro degli uccelli estinti e in via di estinzione. In alcune immagini, alla richiesta si aggiunge anche quella di includere la presenza umana attraverso il dettaglio delle mani che interagiscono con gli uccelli. Ed è proprio nella creazione delle mani che l’AI si svela apertamente: le mani rimangono uno degli aspetti più difficili da realizzare dall’AI, di conseguenza, spesso divengono anche un elemento per verificare la veridicità di ciò che stiamo osservando. Siamo di fronte a una fotografia o a un’immagine creata dal nulla davanti a uno schermo? Invece, nell’opera «Imperfect Lullaby» (2023), l’AI è stata utilizzata per ingrandire e colorare le foto in bianco e nero di piccolo formato scattate da Francesco Fagnani, un reporter che si recò in Albania nel 1993.

Nell’utilizzo dell’AI qual è secondo lei qual è il limite da non superare (se deve essercene uno)?

Oggi con l’AI possiamo fare dalle cose più semplici alle più impensabili e ingegnose: ma che prezzo ha tutto questo? Pochi giorni fa leggevo dell’impatto ambientale di questo boom dell’intelligenza artificiale. Per avere un’idea dell’impronta ambientale dell’AI basti pensare che, secondo un recente studio dell’Università del Massachusetts, l’addestramento di diversi modelli di intelligenza artificiale di grandi dimensioni può emettere una quantità di anidride carbonica equivalente a cinque volte quella emessa da un’auto americana media durante il suo ciclo di vita, compreso il processo di produzione.

È o sarà ancora così importante distinguere tra realtà fisica e realtà virtuale?

Già nel 1981, nel libro Simulacra e Simulazione, Jean Baudrillard esplorava l’idea che la distinzione tra realtà fisica e realtà virtuale stesse diventando sempre più sfumata, rendendo difficile distinguere l’una dall’altra. Più di 40 anni dopo, con l’avvento di Internet, questa difficoltà è ulteriormente aumentata. La nostra esperienza del mondo è sempre più mediata da simboli, immagini e modelli che non riflettono più una realtà sottostante, ma diventano realtà autonome. Penso che sia proprio questo mondo di simulacri ad aver preso il sopravvento, rendendo complicato (e a volte superfluo) stabilire una chiara differenza tra ciò che è reale e ciò che non lo è.

Come mai non sogna più di volare?

Nietzsche in Così parlò Zarathustra usa l’immagine del volo per rappresentare la trascendenza, il superamento dei limiti umani e l’aspirazione a una nuova condizione dell’esistenza. «Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini avrà spostato tutte le pietre di confine; esse voleranno in aria per lui, ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola “la leggera”». Un sogno ancestrale, quello di volare, ma forse, come tutti i sogni, prima o poi dovrà fare i conti con la realtà. La terra non è «la leggera».

Jenny Dogliani, 15 novembre 2024 | © Riproduzione riservata

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