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La Tomba dell’Atleta (480 a.C. ca) con il sarcofago e le quattro anfore panatenaiche nella Sala VII del Museo Archeologico Nazionale di Taranto

© MArTA

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La Tomba dell’Atleta (480 a.C. ca) con il sarcofago e le quattro anfore panatenaiche nella Sala VII del Museo Archeologico Nazionale di Taranto

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I valori olimpici al tempo dell’Atleta di Taranto

Unica deposizione integra e singola finora ritrovata, la tomba ci permette di riflettere su quali fossero i rapporti tra guerra e atletismo, tra politica e doping, binomi del tutto validi ai giorni nostri

Daniela Ventrelli

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La lettura del saggio Il Campionissimo a firma di Giuseppe Mazzarino, giornalista e scrittore tarantino, sull’unica deposizione integra e singola di un atleta mai ritrovata finora, esposta nel Museo Archeologico Nazionale di Taranto, è l’occasione per riscoprire il vero senso degli agoni antichi. Un affare serio per i Greci, una questione di Stato in cui la figura dell’atleta diventa ipotiposi di un’intera comunità. 

I Giochi di Olimpia (a cadenza quadriennale, come oggi) erano, infatti, così importanti che intorno al IV secolo a.C. quando emerse il problema di una datazione comune, si decise di partire dalla data presunta della prima edizione del 776 a.C. D’altronde la frase «l’importante è partecipare» non apparteneva affatto allo spirito con cui in antico si affrontavano le competizioni, ma a quella ripresa dei giochi olimpici di fine Ottocento, voluta da Pierre de Coubertin, da cui inizialmente furono esclusi gli atleti professionisti. Niente di più lontano dal crotoniate Milone, da Phanas di Pellene o Theogenes di Taso, plurivincitori in molteplici specialità e in tutti i giochi coronati panellenici: i Pitici di Delfi, gli Istmici di Corinto, i Nemei dell’Argolide e naturalmente i Giochi Olimpici. Fama e onori ai vincitori ma nessuna ricompensa pecuniaria, tranne che ad Atene dove venivano assegnate corone d’oro (e non di fronde selvatiche come in tutti gli altri casi), monete e le famose anfore panatenaiche con il prezioso olio delle «moriai», gli uliveti sacri di Atene. L’iconografia riproduceva Athena «promachos» (in armi) con l’iscrizione «ton athenethen athlon» (per il premio di Atene) su un lato, e una delle specialità in cui era stata conseguita la vittoria sull’altro. 

L’ignoto atleta tarantino doveva essere un grandissimo sportivo se fu sepolto con quattro magnifiche anfore panatenaiche a figure nere, opera del pittore di Kleophrades (500-480 a.C.), con scene di pugilato, corsa delle quadrighe e pentathlon. Che le anfore rappresentino realmente quattro vittorie riportate ad Atene, o siano solo un simbolo del grande valore di questo uomo, è ancora oggetto di discussione. La tomba fu scoperta casualmente, nel dicembre del 1959, in via Genova a Taranto. Parve subito eccezionale: un sarcofago di carparo dalle pareti dipinte, con copertura a spiovente e acroteri a palmetta sui frontoni, racchiuso in una grande cassa in pietra circondata dalle quattro anfore, di cui solo una in frantumi. Il contenuto destò ancora più stupore: lo scheletro di un giovane uomo molto alto per l’epoca (1,70 m) con un solo oggetto di corredo nella mano sinistra, un unguentario in alabastro. Le indagini paleoantropologiche hanno evidenziato una muscolatura eccezionale insieme ad alcuni dettagli compatibili con l’usura da specifiche attività sportive. La dieta iperproteica, al limite del doping, fu la causa della sua morte precoce (fra i 27 e i 35 anni) anche se tracce importanti di rame e arsenico nelle sue ossa (presenti nei molluschi e nei crostacei di cui si cibava) non hanno escluso un possibile avvelenamento dell’uomo, noto in città anche per la sua indubbia ricchezza. A Taranto, infatti, sono state ritrovate numerose sepolture di atleti, mai singole però, e lontane da queste caratteristiche strutturali. 

L’importanza del volume, che attraverso lo studio del catalogo degli Olympionikai di Luigi Moretti cerca di ricostruire la possibile identità dell’atleta, sta nell’aver posto l’accento su una constatazione precisa, ben nota al mondo antico e giunta fino a noi attraverso la letteratura e l’arte: la natura sacrale dei giochi e il rapporto inequivocabile fra tensione agonistica e militare. Platone, nelle Leggi, lo chiarisce meglio affermando che le performance dei cittadini più bravi nelle gare contribuiscono a una migliore reputazione del «nostro Stato» e preparano «per noi una gloria che valga in cambio e corrisponda a quella che ci guadagneremo in guerra». Sull’origine sacra degli agoni, non si può dimenticare che nell’Iliade fu Achille a dedicare i primi giochi dell’antichità alla memoria di Patroclo. Così come, qualche secolo dopo, uno dei più grandi ceramografi apuli, il pittore di Dario (attivo a Taranto fra il 340 e il 320 a.C.), dipinge su un famoso cratere ritrovato a Ruvo di Puglia una scena tratta da una perduta tragedia di Euripide, l’Ipsipile, in cui la sorte sventurata del piccolo principe di Nemea, Ofelte, diventa «principio di ogni destino» (Archemoros) e sancisce la nascita dei giochi Nemei. O ancora, connubio perfetto di entrambi gli elementi, quando dipinge il ratto di Ippodamia da parte di Pelope che, diventato signore del Peloponneso (da Pelope appunto), decreta la nascita dei Giochi Olimpici. Guerra e atletismo, politica e doping: niente di più contemporaneo in una tomba così antica. 

Il Campionissimo. L’atleta di Taranto e l’agonismo nell’antichità
di Giuseppe Mazzarino, introduzione di Barbara Davidde, 84 pp., ill. col., Scorpione, Taranto 2023, € 18 

La copertina del volume

Daniela Ventrelli, 25 luglio 2024 | © Riproduzione riservata

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