Maria Serlupi Crescenzi
Leggi i suoi articoliAccompagnati da Maria Serlupi Crescenzi, fino al dicembre scorso curatore del Reparto Arti Decorative dei Musei Vaticani, continuiamo il viaggio dentro il «Museo infinito» entrando nella Cappella di San Pietro Martire, nella Sala degli Indirizzi di Pio IX e nella Sala degli Indirizzi.
Il nostro percorso inizia dalla Cappella di San Pietro Martire, una delle tre cappelline sovrapposte all’interno di una torre fatta costruire da San Pio V, sormontata al piano superiore da quella dedicata a San Michele Arcangelo, mentre al livello sottostante si trova quella di Santo Stefano.
In questo ambiente, decorato nel 1570 da Giorgio Vasari e dal suo allievo Jacopo Zucchi, il visitatore dei Musei non ha la percezione di trovarsi in una cappella. Appena uscito dalla Sistina, sopraffatto dalle emozioni scaturite dall’immersione in quella straordinaria Summa Theologiae rappresentata in figura da Michelangelo, e prima di lui dai grandi artisti del Quattrocento, si ritrova in questo piccolo spazio, immerso in una sorta di penombra, in cui meglio rifulge una vetrina illuminata. In essa si trova esposta una parte del «Tesoro» del Sancta Sanctorum, la preziosa cappella di San Lorenzo in Palatium al Laterano.
Nell’immaginario collettivo la basilica di San Pietro è considerata il vero centro della cristianità, ma forse non tutti sanno che, dal IV secolo fino all’esilio avignonese (1309-1377), la residenza dei papi, il cosiddetto Patriarchìo, occupò l’area presso la Basilica del Salvatore, odierna S. Giovanni in Laterano, sulla cui facciata corre la scritta che la definisce «Mater et caput omnium ecclesiarum», ovvero Madre e Capo di tutte le Chiese della Città e del Mondo.
Nella cappella di San Lorenzo in Palazzo, cappella privata del pontefice nell’ambito del Patriarchìo Lateranense, era conservato un preziosissimo tesoro di reliquie. Nel IV secolo la tolleranza nei confronti della religione cristiana, concessa dall’imperatore Costantino con l’editto di Milano (313 d.C.), favorisce la diffusione del culto dei martiri, che in Oriente e in Occidente assume forme differenti in relazione al conseguente culto delle reliquie. Mentre in Oriente non si esita a parcellizzare i corpi dei defunti per creare reliquie da inviare in centri anche distanti dalla capitale, in Occidente ci si rifà al diritto romano, che impone l’inviolabilità delle tombe, il divieto categorico di profanare i corpi e di edificare cimiteri all’interno della cinta muraria della città.
Questa prassi si modifica a Roma con il sopraggiungere delle grandi invasioni, ad esempio sotto Pasquale I, a cavallo tra VIII e IX secolo per il timore che possano provocare sacrileghe profanazioni delle tombe dei martiri. Si chiudono quindi le catacombe disseminate nelle aree suburbane e si inizia a trasferire le sepolture all’interno delle mura, erigendo venerabili basiliche al di sopra delle testimonianze martiriali. È importante rimarcare come per Roma sia determinante la presenza delle reliquie, e come rispetto a Costantinopoli, ad esempio, la città possa affermare la propria egemonia, anche politica, proprio in virtù del possesso di tante sacre spoglie, fra cui in primis quelle dei principi degli apostoli Pietro e Paolo.
Già a partire dal VI secolo abbiamo fonti che parlano delle reliquie convenute nel Sancta Sanctorum e che, sotto Leone III (795-816), vengono poste in un’arca di cipresso all’interno dell’altare, protetta con una solida grata di ferro, chiusa da un lucchetto, posta a difesa del «Tesoro». La grata verrà aperta durante il V Concilio Lateranense, sotto Leone X Medici, nel 1521. Da allora quel lucchetto resterà per sempre chiuso finché, agli inizi del Novecento, il gesuita Florian Jubaru, nell’ambito di ricerche dedicate a Sant’Agnese, chiede al papa di poter vedere il reliquiario della testa della santa incluso nel Tesoro, a cui accede dopo aver ottenuto eccezionalmente il permesso.
Poco più tardi, un altro gesuita, Hartmann Grisar, richiede nuovamente un permesso di accesso al «Tesoro» per motivi di studio e, nel giugno del 1905, con dispensa papale, apre l’altare rendendosi conto della presenza, all’interno dell’arca, di reliquiari preziosissimi. Uno strabiliante complesso di cui si era persa memoria dal Cinquecento e che chiede quindi di poter debitamente studiare. Al diffondersi della clamorosa notizia si crea un grande fermento nel mondo accademico, e il papa Pio X consente di prelevare e portare gli oggetti in Vaticano, sotto imposizione del segreto. I reliquiari, con il loro contenuto, vengono studiati e inventariati, dopo di che, mentre le reliquie sono restituite alla sede originaria, i reliquiari restano in Vaticano e vengono assegnati alla Biblioteca Vaticana per confluire nell’ambito del Museo Cristiano.
Avvicinandosi alla vetrina ci si rende conto della varietà, e della qualità, dei manufatti che si presentarono alla vista di padre Grisar. Tra gli elementi più antichi possiamo trovare il dittico a encausto, con le figure dei principi degli apostoli, risalente al V-VI secolo. Molto interessante è il reliquiario che mostra come i pellegrini della Terra Santa avessero il desiderio di riportare in patria un ricordo del proprio viaggio, e dunque, nella cassetta con il coperchio scorrevole, troviamo terra e pietre raccolte nei luoghi santi, mentre le pitture sul coperchio mostrano scene evangeliche correlate al loro sito di provenienza.
Alla prima e più antica fase, ne segue una seconda con oggetti assai preziosi, associati alla memoria di Pasquale I, che dona al tesoro una magnifica croce smaltata, in rame dorato, inciso e sbalzato decorato con smalti cloisonnés, al cui interno si sarebbero trovate particole o frammenti minuti della Vera Croce di Cristo. Un sapiente restauro realizzato nel Laboratorio di Restauro Metalli e Ceramiche dei Musei Vaticani ha messo in luce la qualità decorativa assolutamente straordinaria con cui sono delineate le varie scene: «Annunciazione», «Adorazione dei Magi», «Presentazione al Tempio», «Battesimo nel Giordano», e «Natività» in posizione predominante al centro.
La croce era contenuta nella teca, che le è accanto, in argento dorato e cesellato. Altro dono di Pasquale I era la «Crux» gemmata, di fattura altomedievale, sempre contenente il legno della Vera Croce, trafugata da mano ignota nel secolo scorso. Di essa rimane la sola teca cruciforme, in argento cesellato, che doveva alloggiare la Crux sul cuscino in seta qui conservato.
Ancora, fra gli oggetti più rari e preziosi del «Tesoro», figura la Capsella con l’«Adorazione della Croce» (Capsella Vaticana), recentemente restaurata presso i nostri laboratori ricorrendo a una innovativa tecnica di pulitura al plasma. Si tratta di una pisside in argento della prima metà del VII secolo, di forma ovale, con coperchio bombato decorato da una crux gemmata, ai cui lati sono due figure angeliche con le braccia levate in gesto adorante, mentre in alto appaiono la dextra Dei (mano destra di Dio) in atto benedicente e una colomba in volo recante la corona del martirio. Sul lato destro, figurano il busto di Cristo tra quelli dei due apostoli Pietro e Paolo. Di area costantinopolitana è, con la stauroteca dipinta con Pietro e Paolo, anche il magnifico reliquario ovale con la crocifissione niellata, del secolo XI-XII.
E ovviamente troviamo nella vetrina l’oggetto che ha portato al ritrovamento del «Tesoro» del Sancta Santorum, ossia la cassetta reliquiario del capo di Sant’Agnese, con un’iscrizione di Onorio III che la data agli inizi del XIII secolo.
Oltre all’avorio, ai dipinti e agli argenti, del «Tesoro» fanno parte anche una serie di tessuti antichi molto preziosi, di cui non si conosce l’esatta provenienza, forse anch’essi legati al dono fatto da Leone X al Sancta Sanctorum. Fra di essi, conservati nella Sala degli Indirizzi di Pio IX adiacente alla Cappella di San Pietro Martire, abbiamo preziosi frammenti di sciamito di seta, di provenienza orientale, con l’«Annunciazione» a Maria e la «Natività».
I tessuti occupano una parte importante nell’ambito del culto delle reliquie cui abbiamo fatto precedentemente cenno. Poiché in Occidente era assolutamente proibito parcellizzare i corpi dei martiri, la Chiesa ricorre a quelle che vengono definite reliquie ex contacto, ossia un oggetto posto a contatto con la sepoltura o con il corpo del martire, assumeva valore di autentica reliquia. Attraverso la fenestella confessionis, dunque, il fedele faceva passare un pezzo di stoffa e, per semplice contatto, tali brandea acquistavano valenza sacra.
Lasciando il «Tesoro» del Sancta Sanctorum, passiamo nella Sala degli Indirizzi, che nel Settecento era parte dell’Appartamento del Maestro dei Sacri Palazzi, poi temporaneamente ospitò la biblioteca dal cardinale bibliotecario Francesco Saverio Zelada. Sotto Gregorio XVI vi trovarono collocazione le opere dei cosiddetti «primitivi», i dipinti medievali che nel 1909 confluiranno nella Pinacoteca Vaticana. Da quel momento l’ambiente sarà adibito a custodire gli «indirizzi» di omaggio inviati ai pontefici Leone XIII e Pio X dai cattolici di tutto il mondo. Dal 1936 vi sono riunite le raccolte di arte applicata della Biblioteca Apostolica Vaticana che, come detto, dal 1999 sono passate alla competenza dei Musei Vaticani.
Gli oggetti qui conservati offrono una panoramica di tecniche e di materiali assai diversi (avori, smalti, oreficerie), come differenti sono le epoche rappresentate, dal Medioevo fino all’Ottocento. È una collezione talmente variegata che è impossibile soffermarsi vetrina per vetrina e dovremo necessariamente limitarci ad ammirare alcuni oggetti selezionati per grandi nuclei tematici.
Tra gli avori, ad esempio, abbiamo il trittico con «Deesis e Santi», di fine X-inizi XI secolo, acquistato da Benedetto XIV, o il dittico di artista longobardo, generalmente detto di Rambona, dalla località marchigiana in cui si trovava l’abbazia benedettina il cui abate Odelrico fu il committente nel 900 ca. Concepito forse come legatura di un codice miniato, esso presenta, nella valva di sinistra la «Crocifissione» tra la Vergine e San Giovanni, con in alto il Sole e la Luna e, in basso, la «Lupa con i gemelli» Romolo e Remo, in quella di destra la «Vergine in Maestà» e i Santi dedicatari.
La collezione di smalti champlevé di Limoges del XII-XIII secolo annovera una quarantina di raffinati esemplari sia di carattere sacro che profano, come cassette-reliquiario, crocifissi, ricci di pastorale, pissidi, candelieri, legature di libri, medaglioni.
Tra gli smalti limosini spiccano i rilievi di Cristo in trono benedicente e degli Apostoli (ridotti al numero di cinque): è quanto sussiste della «Maiestas Domini» del prezioso paliotto in rame inciso, dorato e smaltato, donato da Innocenzo III alla Confessione di San Pietro in Vaticano, in occasione di lavori promossi nel presbiterio della basilica costantiniana agli inizi del XIII secolo, ovvero i diciotto quadretti con «Storie della Passione» datati alla seconda metà del XVI secolo, testimonianti l’alto grado raggiunto in età rinascimentale dalla tecnica dello smalto dipinto.
Abbiamo poi una incommensurabile raccolta di oggetti liturgici delle più varie tipologie e via via, scorrendo di vetrina in vetrina, possono ammirarsi: croci d’altare e astili, reliquari, ostensori, calici, ampolline, cartegloria, navicelle per l’incenso, fino alla Pace, la tavoletta con un’immagine sacra che nei secoli XIII-XVIII veniva utilizzata, durante la messa per portare il bacio della pace prima della Comunione. L’esemplare qui esposto presenta un’immagine della Pietà ripresa da un disegno di Michelangelo.
Non può mancare un esemplare della rosa d’oro, che solo il papa poteva benedire nella domenica Laetare (IV di Quaresima) e che costituiva uno dei doni di maggior prestigio offerti dal pontefice a chi si fosse distinto nella difesa della Chiesa. La rosa, la cui origine assai antica risale almeno ai tempi di Leone IX (XI secolo), inizialmente era un unico fiore tinto di rosso (poi ebbe un rubino) nel bocciolo, che il papa ungeva con balsamo e in cui introduceva una piccola parte di unguento, aspergendola quindi con acqua benedetta per poi incensarla.
In seguito, la rosa assunse la forma di un ramo fiorito con più fronde e nella rosa principale era ricavata una piccola coppa, in cui il papa versava balsamo e muschio tritato, associato alla fragranza del fiore e simbolicamente al buon profumo di Cristo da spandere nel mondo. La rosa d’oro, donata in passato a principi e sovrani, in tempi più recenti è stata portata come segno di devozione in diversi santuari mariani, tra cui quello di Fatima, a cui papa Francesco l’ha donata nel 2017.
Un prezioso nucleo di oggetti liturgici è quello derivante dalla donazione dell’antiquario fiorentino Carlo Barocchi e della moglie Lucia: 37 oggetti offerti nel 2007 in segno di devozione personale a Benedetto XVI, restaurati presso il nostro laboratorio. Questo dono mette in luce come il settore delle arti decorative dei Musei Vaticani, sia soggetto a continui arricchimenti con doni, come quello del nipote del Cardinale Giovanni Lajolo, o lasciti, come il piccolo avorio del cardinale Jean Louis Tauran.
Infine, in tre vetrine si dispiegano in tutto il loro fulgore i preziosissimi reliquiari della collezione del cardinale Sfondrati. Paolo Emilio Sfondrati, cardinale titolare della Basilica di Santa Cecilia in Trastevere, nell’autunno del 1599, alla vigilia del grande Giubileo del 1600, ottiene da papa Clemente VIII Aldobrandini il permesso di effettuare degli scavi in occasione di un restauro dell’interno della basilica. Nell'area presbiteriale viene ritrovato sotto l’altare il corpo incorrotto di santa Cecilia, nella posizione in cui verrà immortalata nella toccante scultura di Stefano Maderno.
Assieme al corpo della martire vengono ritrovati anche i sarcofagi con i corpi di Tiburzio, Valeriano e Massimo: Valeriano era lo sposo di Cecilia, da lei convertito, e che a sua volta convinse al cristianesimo il fratello Tiburzio. Entrambi furono condannati a morte dal prefetto Almachio, che li affidò all’ufficiale Massimo, il quale, prima di fare eseguire la sentenza di morte, si convertì a sua volta, venendo così condannato e ucciso qualche giorno dopo.
Il ritrovamento dei corpi di questi martiri vissuti nel III secolo suscita immenso clamore e provoca un inarrestabile concorso di popolo ricordato nelle fonti del tempo: le reliquie vengono esposte in fondo alla navata destra della basilica e lasciate al culto dei fedeli fino al 22 novembre, giorno della festa di santa Cecilia. Parte delle reliquie saranno poste in questi lussuosi oggetti di oreficeria: coppe da parata, saliere, rinfrescatoi con treppiedi, bracieri, perfino un orologio, sormontati da croci per essere trasformati in reliquiari, il cui contenuto è esplicitato da iscrizioni.
Sono esemplari di squisita fattura, tutti della seconda metà del Cinquecento: 46 pezzi, di cui 23 di mano di artisti tedeschi, alcuni francesi, due fiamminghi e i restanti italiani. A ricordare la loro origine non sacra ma profana sono le immagini che li decorano, come scene di caccia al cinghiale o alla lepre. Tutti gli oggetti sono in argento dorato, inciso, sbalzato e cesellato, arricchiti da incrostazioni di pietre preziose: granati, rubini, smeraldi lapislazzuli, perle barocche, cammei antichi.
Infine, al centro della sala campeggiano alcuni bozzetti delle raccolte del cardinale Flavio I Chigi, che li custodiva nel suo Casino alle Quattro Fontane. Alcuni sono opera di Gian Lorenzo Bernini, come la «Carità con quattro putti» e la «Carità con due putti», bozzetti per la prima e la seconda versione del monumento funebre di Urbano VIII in San Pietro. Accanto ai bozzetti berniniani, è esposto un modello di Alessandro Algardi per il «Battesimo di Cristo».
In questo Reparto in costante evoluzione abbiamo una sala che a breve aprirà, dedicata alla collezione di ceramiche medievali e rinascimentali, prima esposta nelle salette di San Pio V al piano superiore. Fra i numerosi manufatti spicca la spettacolare serie di piatti proveniente dalla collezione Carpegna. Si tratta di maioliche straordinarie, espressione apicale della produzione di Urbino nel momento di massimo fulgore, alla prima metà del Cinquecento, tanto che in passato furono attribuite a Raffaello.
Del Sanzio non è l’esecuzione, ma sicuramente lo è l’idea: la riproduzione delle sue opere a stampa e una larga circolazione delle incisioni, forniscono una inesauribile riserva di modelli di ispirazione per i maiolicari, che con i propri manufatti creano un efficace mezzo di diffusione delle sue invenzioni formali.
Altro ambiente che aprirà al pubblico è il complesso dell’antica Farmacia del monastero di Santa Cecilia in Trastevere, che si riallaccia alla adiacente basilica di cui per trent’anni fu titolare il Cardinale Sfondrati: si tratta di un complesso quasi integro di spezieria seicentesca, trasferito in Vaticano nel 1936 per volere di papa Pio XI.
IL MUSEO INFINITO
Un viaggio dentro i Musei Vaticani accompagnati da guide d’eccezione: i curatori responsabili delle sue collezioni
A cura di Arianna Antoniutti