Maurizio Sannibale
Leggi i suoi articoliProsegue l'iniziativa che i Musei Vaticani e Il Giornale dell’Arte dedicano a un visitatore ideale: un viaggio dentro il «Museo infinito» accompagnati da guide d’eccezione: i curatori responsabili delle sue collezioni. Il Giornale dell’Arte ospiterà ogni settimana un testo originale elaborato dai curatori dei Musei Vaticani. Dopo aver illustrato la nascita del Gregoriano Etrusco, il direttore Maurizio Sannibale ci conduce nelle prime due Sale del Museo.
La prima sala è frutto del già citato allestimento degli anni Novanta che in discontinuità con il primo impianto museale, dove costituiva una sorta di vestibolo con sarcofagi e ritratti etruschi in parte perpetuatosi nella successiva dedica al materiale litico, inizia secondo un ordine cronologico. Siamo così agli inizi del primo millennio avanti Cristo, tra la fine dell’età del bronzo e l’inizio dell’età del ferro, nel momento in cui la nostra storia prende avvio, guardando all’Etruria e al Lazio antico.
Idealmente, ci troviamo di fronte i due popoli rivali, separati e uniti da un fiume, come se immergessimo i piedi nel Tevere: da un lato abbiamo la sponda etrusca e dall’altra quella latina. Su quella che è la sponda etrusca troviamo numerose primizie, in particolare la prima documentazione in assoluto della cultura villanoviana, ossia la cultura dei primi etruschi. Notoriamente la definizione deriva da un sito presso Bologna, ma in realtà le tracce villanoviane emersero per la prima volta nel cuore dell’Etruria, a Vulci. Lì, scavi eseguiti alla fine del Settecento, rivelarono alcuni degli elementi caratteristici di questa cultura, tra cui spiccano le sepolture entro biconici e la produzione metallurgica.
Nella teca che racchiude queste preziose testimonianze, in cui la copiosa disposizione dei biconici evoca la loro reale concentrazione nei campi di urne che costituiscono le necropoli, abbiamo voluto separare il mondo maschile da quello femminile: da un lato le armi, i morsi equini, le asce e, dall’altro, i cinturoni a losanga, il fuso, le armille.
Tra gli elementi caratterizzanti vi era appunto la sepoltura a pozzetto entro biconici, contenitori delle ceneri del defunto, ai quali dovremmo guardare con altro sguardo, immaginando come questi vasi non costituissero un mero recipiente, in origine concepito per contenere e trasportare acqua, ma finissero per costituire il corpo e la dimora dello stesso defunto. Non dobbiamo pensare all’incinerazione come a una distruzione del corpo: era al contrario l’apoteosi del defunto, il passaggio a un altro stadio che, in qualche modo, si collega a una religione che guarda all’elemento astrale.
Ovviamente non abbiamo la possibilità di decodificare con certezza le immagini, ma possiamo supporre come le decorazioni dei cinerari possedessero una sicura stratificazione simbolica, come i meandri simboli di acqua, o le svastiche simboli astrali o solari e, sempre in forma stilizzata, barche allusive al viaggio (del sole come pure agli inferi) e figure umane in gesti rituali.
Questi sono dunque alcuni degli elementi che caratterizzano la cultura villanoviana, i cui insediamenti precedono quelle che saranno le future città-stato etrusche. Assistiamo in questo momento a ciò che viene definito un fenomeno proto-urbano, insediamenti urbanisticamente definiti che controllano e organizzano il loro territorio, con una struttura sociale e una leadership emergente.
La concezione che conduce il biconico villanoviano a sostituire l’individuo defunto nella funzione di contenitore delle sue ceneri, a personificarlo nella sepoltura, appare ancora più chiara circa due secoli dopo attraverso un cinerario antropomorfo dalla stessa Vulci esposto a poca distanza. In questo caso il vaso in ceramica subisce una metamorfosi: spuntano le braccia, si riveste di un abito (dipinto), le mani e la testa (qui non conservate) lo completano.
Un altro cinerario antropomorfizzato, questa volta di bronzo, dove le anse suggeriscono le braccia e una testa andava a completarlo, conclude questa divagazione conducendoci all’Orientalizzate, l’età dei principi etruschi fastosamente rappresentata nella sala successiva. Accanto ad esso, quella che appare come una modesta seggiolina è in realtà un trono sul quale, posandovi il cinerario, il defunto sedeva nell’ultima dimora come un re o una divinità.
Traghettando idealmente sull’altra sponda del Tevere, troviamo un’altra assoluta primizia: la prima testimonianza della cultura laziale, ovvero dei primi Latini, mai rinvenuta. Si tratta di una necropoli scavata nel primo Ottocento a Castel Gandolfo, sui Colli Albani, in un’area prossima alla mitica Alba Longa. Tra gli elementi di spicco compaiono questi cinerari a forma di capanna (nella realtà casa, ma anche reggia o tempio), un genere diffuso anche in Etruria e persino nell’Europa centro-settentrionale, in cui trovarono sepoltura personaggi eminenti agli albori della storia avvolta nel mito del popolo latino, cui si lega la fondazione di Roma, futura padrona del mondo. È affascinante pensare di trovarci, attraverso enigmatici e apparentemente modesti manufatti, di fronte al nucleo primordiale di una cultura, nonché di una lingua, inizialmente condivisa da pochi individui e poi destinata ad avere un impatto globale nei secoli a venire.
Idealmente si va a chiudere la parentesi sui Colli Albani proto latini, con un’altra primizia: un carro di tipo etrusco di VI secolo a.C., primo carro antico mai scoperto, riemerso nel tardo Settecento dalla Tenuta di Roma Vecchia, forse nei pressi della Villa dei Quintili sull’Appia Antica, nell’area delle Fossae Cluiliae in cui si svolse il mitico duello fra Orazi e Curiazi, il cui esito segnò la vittoria di Roma sulla madrepatria Alba Longa. Proprio qui, lungo la Via Appia, si ergono ancora oggi i tumuli tardo-repubblicani, riecheggianti i più antichi tumuli etruschi, già in antico attribuiti ai mitici combattenti. In quest’area ad alto significato simbolico, venne ritrovato il carro, sicuramente riferibile a un personaggio eminente. La sua ricostruzione attuale, diversa dalla prima versione illustrata da G.B. Piranesi, è stata resa possibile anche grazie alle immagini di carri simili pervenute, come si vede dal vaso che gli è esposto accanto.
L’ingresso alla II sala, dedicata principalmente alla Tomba Regolini-Galassi, avviene attraverso il portale monumentale progettato dall’architetto Costantino Sneider e fatto erigere in occasione dell’inaugurazione dell’allestimento del 1925, al quale abbiamo precedentemente accennato. Con questo straordinario corredo di oreficerie, vasi in metallo prezioso e bronzo, carri e persino un letto in bronzo praticamente unico, nonché ceramiche in misura minore solo perché tralasciate dagli scopritori, ci troviamo di fronte a un contesto che è rappresentativo non solo per l’Orientalizzante etrusco, ma anche per l’archeologia dell’intero Mediterraneo antico. E in effetti alla sua scoperta si interessò l’intero mondo culturale europeo.
Scoperta nell’aprile del 1836 nella necropoli del Sorbo di Cerveteri, dall’arciprete Alessandro Regolini e dal generale Vincenzo Galassi, rappresenta uno dei primi contesti archeologici ad essere stato puntualmente documentato, anche se a posteriori. Possiamo dunque avere un’idea dell’originaria disposizione del corredo, a partire dai disegni che ne fece Canina. La scoperta ebbe da subito un’enorme risonanza, non solo per la ricchezza e unicità del corredo, narrano le cronache dell’epoca che i soli ori riempirono due intere ceste, ma anche per i rapporti con l’Oriente antico traditi in forma inedita da alcuni dei sui elementi più qualificanti, oltre all’interesse destato dalla notevole antichità della tomba che non mancò di essere messa in relazione con il tema affascinante delle origini degli Etruschi.
Quello che in principio sembrava uno scavo poco promettente, rivelò invece un ricco sepolcro inviolato da riferire a una delle famiglie regali dell’antica Caere. Sebbene fosse alloggiato in un enorme e ben visibile tumulo monumentale, il sepolcro non era mai stato saccheggiato in quanto era rimasto inglobato nel successivo ampliamento del tumulo operato dalla stessa nobile famiglia che continuò ad usarlo per circa due secoli. Nuove tombe si aprirono lungo il suo perimetro, mentre di quella degli avi se ne perse memoria.
La tomba, ancora oggi visibile a Cerveteri, presenta una pianta stretta allungata: su un’anticamera con due basse celle ovali ai lati si apre la camera principale sul fondo. Gli scopritori ottocenteschi videro un’anticamera con scudi appesi alle pareti, vasi metallici inchiodati, grossi contenitori poggiati al suolo, calderoni con protomi. Un letto di bronzo, unico esemplare integro pervenuto, con due tripodi disposti ai capi, era circondato da statuette di piangenti e affiancato da fasci di spiedi, uno scudo e un carrello rituale. Stava presso l’ingresso murato di una cella laterale, che a sua volta conteneva un grosso vaso con ossa bruciate al suo interno, tra due file di piangenti.
Ovviamente ciò che destò il maggiore interesse fu la cella principale, comunicante attraverso una sorta di finestra rituale che guardava al suo interno: su un letto funerario, un piccolo rialzamento del terreno, erano sistemate le oreficerie come se fossero realmente indossate, ma al di sotto delle quali non furono riconosciuti resti di un corpo umano. Tra le oreficerie, qui esposte, troviamo la celebre fibula da parata con complessi fregi animalistici e astratti in varie tecniche e forme, un grande pettorale con decorazione a sbalzo, collane, bracciali in oro istoriati e vasellame in argento.
La bottega che ha realizzato su commissione questo prezioso servizio in argento, destinato a commensali di rango, assortito in funzione del rituale funerario, doveva essere formata da maestri di origine orientale, che si trovavano a operare in un contesto «multiculturale», quale era Cerveteri in quegli anni. Nelle loro forme leggiamo una sintesi di quello che è il panorama culturale dell’epoca, con puntuali citazioni di differenti aree culturali: dalla brocca di tipo fenicio alla coppa emisferica e alla patera baccellata del Vicino Oriente Antico, dallo skyphos corinzio all’anforetta e alla tazza di tradizione locale.
Su alcuni degli oggetti del servizio leggiamo un’iscrizione etrusca che recita larthia o mi larthia. Nell’Ottocento si pensò che il riferimento fosse a un personaggio femminile, ma dopo la prima metà del Novecento è stata riconosciuta come la forma di un genitivo maschile arcaico: «Io sono di Larth».
In anni più recenti, su altri vasi preziosi come le patere fenicie, sono state rinvenute altre due iscrizioni che completano questa formula onomastica riportando Larthia Velturus. Piacerebbe poter aver dato un nome alla potente famiglia, interpretando «Io sono di Larth Velthuru», ma potrebbe anche trattarsi solo di due nomi individuali, nel caso si volesse tradurre «di Larth e di Velthur». È un problema per il momento ancora aperto.
Il corredo, nel corso degli anni, è stato sottoposto a una serie di restauri che hanno permesso di fornire una nuova immagine della tomba. Non si è trattato solo di migliorarne la fruibilità estetica, ma anche di acquisire nuovi dati. Alcuni preziosi sono stati ricomposti da minutissimi frammenti, se ne vedono ancora alcuni, così come furono raccolti al tempo dello scavo e ora ulteriormente indagati e selezionati. Molti di essi sono frammenti di laminette decorate che erano intessute sul prezioso abito indossato dalla defunta.
Lo strato su cui giaceva la defunta fu campionato, ed è una cosa abbastanza rara per l’archeologia dell’epoca, e per quasi due secoli è stato così conservato nel museo. Con le attuali tecniche scientifiche da questi reperti possiamo acquisire numerose informazioni. Analisi sono ora in corso e ci aspettiamo da esse novità importanti.
Nonostante le iscrizioni, possiamo ancora leggere al femminile la sepoltura principale della tomba, non solo per la prerogativa di genere di alcune oreficerie, ma anche per la presenza di un fuso in argento che costituisce una sorta di insegna, per il suo richiamo alla pratica della tessitura in ambito domestico quale prerogativa delle donne di rango.
Molto ci sarebbe da dire anche sugli elementi iconografici presenti sulle parti figurate delle oreficerie, un complesso enunciato di motivi di derivazione levantina, che va oltre la semplice decorazione, sia quando si tratta di personificazioni divine che di un variegato bestiario fantastico. Non manca tuttavia l’apporto della mediazione ellenica: un caso tra tutti è dato dalla raffigurazione della chimera, tra l’altro una delle prime rappresentazioni nell’arte etrusca. Tutti gli elementi del corredo, databile intorno al 675-650 avanti Cristo, ci parlano infatti di interrelazioni tra i popoli del Mediterraneo. Lo stesso tema della defunta che appare attraverso una finestra rituale nella tomba, rimanda al noto motivo orientale della dea alla finestra: è un’epifania.
Impossibile non soffermarsi poi sull’aspetto tecnico di questa che rappresenta la più antica testimonianza dell’oreficeria etrusca, qui presente nei suoi variegati processi: granulazione, filigrana, lavorazione a sbalzo, microsaldatura. Ciò che rende unici questi oggetti non è tanto la profusione di materia prima, per altro assai rara e preziosa ai tempi, quanto le sofisticate tecniche di lavorazione. Le migliaia di sferette che vennero utilizzate misurano due o tre decimi di millimetro, una dimensione minutissima che noi possiamo apprezzare solo attraverso sofisticati microscopi.
Nel 2013 abbiamo potuto presentare al pubblico, con un nuovo allestimento, una parte importante della tomba, ossia tre diversi tipi di veicoli: un carro da guerra, un carro da trasporto e un carro funerario. Ancora, tra gli oggetti di particolare pregio della tomba vanno senz’altro menzionate quattro coppe di fabbrica fenicia, sulle cui iscrizioni ci siamo già soffermati. Da notare come persino oggetti come questi siano stati fissati sulla parete con un chiodo di ferro. Era una sorta di consacrazione che li rendeva inservibili per il mondo dei vivi. Su questa sorta di «tesoro della corona», troviamo tratti e temi egittizzanti e legati alla regalità, come la guerra e la caccia, banchetti di corte, oppure temi escatologici e dinastici come l’allattamento sacro.
Altro reperto di grande rilevanza è il cosiddetto calamaio, la definizione è ottocentesca, ma si tratta invece, con tutta probabilità, di un unguentario. Esso costituisce uno dei primi documenti dell’arte scrittoria in Etruria, perché presenta sulla sua superficie non solo un alfabetario completo ma anche un sillabario. È un piccolo mistero se faccia o meno parte della tomba Regolini-Galassi o se, oppure, provenga da una delle sepolture della stessa area lì vicino.
Infine, in una vetrina separata, sono racchiusi alcuni reperti provenienti dalle tombe periferiche del tumulo, sepolture utilizzate da parte della stessa nobile famiglia, per oltre due secoli. Tra i reperti troviamo magnifiche ceramiche attiche importate e alcuni buccheri finissimi.
Ancora, in altra vetrina sono esposti gli oggetti in bucchero provenienti dalla Tomba Calabresi, scavata nel 1836 nella necropoli del Sorbo, inclusa in un tumulo prossimo a quello della Tomba Regolini-Galassi. Di questi buccheri noi ammiriamo soprattutto la lucentezza, lo spessore esiguo delle pareti e la raffinatezza della decorazione incisa e graffita. La cosiddetta ampolla Calabresi, ad esempio, è contraddistinta da un virtuosismo di sfrenata fantasia: abbiamo un vaso, riproducente la forma di un askos, che si trasforma nel doppio corpo di un cavallo cavalcato da un auriga. Si tratta di un vaso dall’impiego rituale per noi oscuro; ciò che sappiamo è che i due liquidi che conteneva restavano separati.
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