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Igor Vital’evich Savitsky che dipinge nel deserto, sulle sponde di quello che sembra un lago salato

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Igor Vital’evich Savitsky che dipinge nel deserto, sulle sponde di quello che sembra un lago salato

Igor Vital’evich Savitsky: «Il Museo è il solo scopo della mia vita»

Un «romanzo», tra realtà e invenzioni narrative, racconta l’avventura di un uomo visionario che in Uzbekistan salvò 80mila opere proibite

Micaela Zucconi

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Il Louvre del Deserto, come è stato definito, si staglia monumentale nella cittadina di Nukus, capitale della Repubblica autonoma del Karakalpakstan, nel Nord dell’Uzbekistan. Una regione remota vicina al fu mare d’Aral (prosciugato in epoca sovietica per irrigare i campi di cotone) fa da sfondo all’avventura che ha portato alla creazione del museo statale intestato al suo fondatore: Igor Vital’evich Savitsky, colui che riuscì a salvare 80mila capolavori di avanguardie artistiche russe, pre e post Rivoluzione d’ottobre. Arte proibita, non allineata al diktat del Realismo socialista, duramente repressa. Il museo accoglie anche un’importante collezione di arti decorative del Khorezm (l’antica Coresmia formata dall’Amu Darya, l’Oxus di Alessandro Magno), motivazione ufficiale per la nascita dell’istituzione.

Giulio Ravizza, narratore, pubblicitario e scrittore, folgorato da una visita nelle sale in cui Cubismo, Astrattismo, Futurismo e Costruttivismo si materializzavano davanti ai suoi occhi, si è appassionato alla figura di Savitsky e dopo tredici anni di ricerche d’archivio e interviste a testimoni ed esperti per ricostruire il puzzle di una vita vissuta pericolosamente, ci regala Anche se proibito. La folle impresa di Igor V. Savitsky (416 pp., ill., Bookabook 2025, € 19). Un romanzo che, tra realtà e invenzioni narrative, racconta la parabola professionale e umana del protagonista. 

Nato a Kiev nel 1915 in seno a una famiglia aristocratica travolta dalla Rivoluzione del 1917 e fuggita a Mosca, Igor vive il periodo più buio dell’era sovietica, sopravvive a esecuzioni e suicidi, spera in un’apertura ai tempi di Leoníd Bréžnev, impara a nascondere le proprie origini e a muoversi con abilità diplomatica e sfrontata audacia. Elettricista per campare, artista per vocazione, il protagonista trova in Uzbekistan, dove era arrivato durante la Seconda guerra mondiale, i territori in cui prende forma il suo progetto che, nella finzione letteraria, si accompagna all’attesa dell’amore perduto. Tutto il resto è vero. «Il Museo è il solo scopo della mia vita», scriveva Savitsky al suo medico personale Sergei Naumovich Efunu, nel 1982, mentre il suo fisico veniva consumato dalla malattia conseguenza della totale abnegazione alla missione che si era imposto (muore a Mosca nel 1984). Il direttore del museo non esitava a ricorrere a rischiosi stratagemmi per gabbare la censura. Così nel caso dei disegni di Nadezhda Borovaya, fatti passare come descrizione dei campi nazisti, mentre ritraevano la vita del gulag dove era stata internata. Savitsky, sottolinea Ravizza, non si arrendeva mai. Sotto questa luce è credibile il suo incitamento all’amica Marinika Babanazarova, che gli succederà alla direzione del museo: «Dimentichi il coraggio... È il desiderio che la deve guidare... Lei, quando lei diventerà direttrice, sarà coraggiosa per il desiderio di salvare le tracce del suo popolo e le avanguardie più strabilianti del Novecento». Così è stato. I proventi del libro sono destinati alla sua traduzione in russo.

La copertina del volume

Micaela Zucconi, 19 novembre 2025 | © Riproduzione riservata

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Igor Vital’evich Savitsky: «Il Museo è il solo scopo della mia vita» | Micaela Zucconi

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