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Roberta Bosco
Leggi i suoi articoliL’installazione di Giuseppe Penone «Unghia e foglie di alloro», che occupa sia olfattivamente sia visivamente lo spazio espositivo, è l’immagine della nuova mostra del Museo Guggenheim di Bilbao «Arti della Terra», che dal 6 dicembre al 3 maggio 2026 affronta il conflitto tra progresso tecnologico ed ecologia dalla prospettiva dell’arte visiva e concettuale, l’architettura e il design. Il progetto, che fa parte del piano strategico per la sostenibilità ambientale del museo, riunisce oltre 100 opere di 40 artisti di generazioni e culture diverse, che comprendono tutti i grandi nomi del Land art. La coscienza del cambiamento climatico e della crisi ecosociale che vive il pianeta si materializza in sculture, installazioni, disegni e performance, contestualizzate da un’ampia selezione di materiale d’archivio, plastici e oggetti della cultura dei Paesi Baschi, che rappresentano una varietà altrettanto ampia di approcci artistici, dall’Arte Povera al Concettualismo attivista, fino a proposte che trascendono le etichette di movimenti e correnti consolidate.
Il curatore della mostra, Manuel Cirauqui, si addentra in ambiti scientifici come la biologia, la chimica, la botanica, la geologia e l’agronomia dal campo dell’arte, in un percorso trasversale non suddiviso in sezioni cronologiche o tematiche, ma basato sul dialogo, le coincidenze e le affinità materiali e poetiche, che dimostrano preoccupazioni e aspirazioni comuni. Nonostante si possa visitare senza seguire un ordine imposto, la mostra inizia idealmente con le opere di artisti che seppero prefigurare l’emergenza ecologica come Jean Dubuffet, Joseph Beuys o l’australiano Jimmy Lipundja, che dipinge visioni mitiche sulla corteccia degli alberi. Le accompagnano le memorie fotografiche delle performance della cubana Ana Mendieta, la rumena Ana Lupas o la catalana Fina Miralles e le sculture antimonumentali di sabbia, terriccio o paglia di Meg Webster e Giovanni Anselmo.
Delcy Morelos, «Bruja (Sorgin)», 2025
La capacità dell’arte organica di modificare ambiti architettonici si plasma in uno degli interventi site specific della rassegna, uno spazio tellurico di terra e radici divelte della colombiana Delcy Morelos, che stravolge la galleria 206 del museo. Questa sala e la 207, dove si trovano le storiche sculture viventi di Hans Haacke, un tappeto erboso e una coltivazione di fagioli, saranno mantenute durante tutto il periodo della mostra in condizioni speciali di luce, temperatura e umidità per garantire il benessere delle specie viventi che accoglie. In questa atipica serra all’interno del museo si presenta l’installazione di Asad Raza, formata da 26 alberi di specie diverse che verranno trapiantati in territorio basco al termine della mostra, insieme alle «Wardian Case», le «casse di Ward» della tedesca Isa Melsheimer, un terrario completamente sigillato, inventato da Nathaniel Ward intorno al 1829 come una sorta di minibiosfera per proteggere le piante esotiche importate. «Le opere botaniche trascendono il concetto di vivaio per esplorare le dinamiche degli ecosistemi. La crescita delle piante ci aiuta a comprendere l’origine delle forme elementari del nostro mondo. Il loro sviluppo in questo spazio evidenzia, ma anche sfida, l’origine comune dei concetti di cultura e agricoltura, che il mondo industrializzato ha progressivamente separato», spiega Cirauqui.
Il suolo in tutte le sue declinazioni è il grande protagonista della rassegna, dagli esperimenti con composizioni di terra extraterrestre dell’ecuadoriano Oscar Santillán alle sculture di terra cruda dell’argentino Gabriel Chaile, che ha disegnato inoltre un grande murale al carboncino direttamente sulle pareti del museo, passando per le ceramiche dell’artista basco Mar de Dios realizzate con fanghi della Biscaglia o i lavori modulari di David Bestué, prodotti con la fanghiglia del fiume Nervión. Uno spazio è dedicato alla cooperazione tra specie animali e vegetali, come l’installazione di nidi di rondine e i grandi paesaggi astratti eseguiti con lane di tutte le razze di pecora della penisola iberica di Asunción Molinos Gordo, le esplorazioni cromatiche della biodiversità amazzonica di Susana Mejía e i tessuti creati dall’artista Claudia Alarcón insieme alle comunità di donne del Gran Chaco argentino. «Il potenziale delle formazioni organiche ci permette di immaginare continue metamorfosi tra il vegetale, l’animale e il minerale. Le composizioni vegetali assumono l’aspetto di piume, pelle o ossa, evocando un dialogo circolare tra ecosistema e sogno», sottolinea il curatore.
Como conclusione la mostra offre una meditazione sull’astrazione come strategia per godere dei materiali nella loro silenziosa pienezza attraverso le opere di Solange Pessoa, Gabriel Orozco, Richard Long, Penone e del basco Agustín Ibarrola.
L’intenso programma di attività offre molteplici opportunità per riflettere sullo stretto legame tra arte e cura del pianeta. Spiccano «Wish Tree for Bilbao» di Yoko Ono (in mostra anche al Musac di Leon fino al 17 maggio 2026), un’opera partecipativa che invita il pubblico a scrivere i propri desideri su piccoli pezzi di carta e ad appenderli ai rami di un albero, e le visite a Carranza per conoscere il progetto «Multur Beltz» di Asunción Molinos Gordo e al Bosco di Oma, un’opera del Land art più puro, realizzata da Agustín Ibarrola a Kortezubi (Biscaglia), che si compone di motivi e figure geometriche dipinte sul tronco dei pini. «Sono opere in cui il processo artistico si fonde con il divenire stesso della materia. L’accumulo di foglie, l’intreccio o la biforcazione di rami e tronchi contrastano con la plasticità di fluidi naturali, come la cera o il lattice; e persino con materiali di origine minerale, tradizionalmente associati al canone della scultura, come il bronzo o il vetro», conclude Cirauqui.
Isa Melsheimer, «Wardian Case», 2023