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Piero Golia, «On the edge (Sulla cresta dell’onda)», 2000

Cortesia dell’artista

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Piero Golia, «On the edge (Sulla cresta dell’onda)», 2000

Cortesia dell’artista

Il MAMbo dà sfogo alla nostra deliberata vena ironica

Per festeggiare i suoi primi cinquant’anni, il museo bolognese propone un allestimento che riprende un progetto di Aldo Rossi per il museo: colori primari e una rampa di 26 metri che suddivide in due lo spazio espositivo

Se è vero che, come scrive in catalogo Cesare Pietroiusti, «l’opposto dell’ironia [...] è la prosopopea narcisistica del proclama: la dottrina, la presa di posizione ideologica, il moralismo, il vittimismo», una mostra dedicata all’ironia può riuscire controveleno ideale alle retoriche che sempre più impazzano nelle maggiori rassegne internazionali. Come emblema delle due vie contrapposte si possono prendere due opere del 1974, entrambe in mostra, di Giuseppe Chiari: nella prima «L’ARTE È FINITA smettiamo tutti insieme» recita un manifesto che riprende lo stile della comunicazione politica di quegli anni. La seconda è identica, tranne che per una piccola aggiunta: «L’ARTE È FINITA smettiamo tutti insieme. GUTTUSO anche». La presa di posizione ideologica della prima viene confermata, ma anche ironizzata, dalla seconda: ove si concordi, lo si deve fare con un sorriso. 

Una delle caratteristiche più sfuggenti ma più importanti dell’ironia è la sua retorica della preterizione: nel contraddire un assunto insieme lo evoca, gli dà forma, lo slatentizza. L’ironia, ha scritto Marina Mizzau già nel sottotitolo del più importante saggio italiano sull’argomento, L’ironia appunto (Feltrinelli 1984), è «la contraddizione consentita».

È ironico dunque già il titolo della mostra «Facile ironia. L’ironia nell’arte italiana tra XX e XXI secolo» (catalogo Allemandi) curata da Lorenzo Balbi e Carolina Molteni al MAMbo (fino al 7 settembre), per festeggiare il mezzo secolo del museo. Lungi dall’essere facile, scrive Balbi, «il concetto di ironia è infatti fluido, aperto, difficile da afferrare e circoscrivere». Nella storia del pensiero se ne sono date interpretazioni anche assai distanti, ma accomunate dal considerarla «un meccanismo sociale»: è interpersonale, relazionale, non funziona senza la cooperazione di chi guarda. 

Caratterizza la grande rassegna bolognese l’allestimento di Filippo Bisagni, che riprende un progetto di Aldo Rossi a suo tempo proposto (invano) appunto per il MAMbo: tanto nei colori primari, che scandiscono allegramente le sezioni della mostra, che nella sua articolazione interna: una rampa di 26 metri suddivide in due lo spazio espositivo con un’inclinazione che restituisce bene la precarietà di senso dell’ironia (l’effetto è simile a quello della Casa Obliqua al Sacro Bosco di Bomarzo). In fondo alla rampa, e dunque in cima alla mostra, c’è un lavoro bellissimo di Luigi Ontani, «ErmafroDitoMignolo», in cui l’artista si autoritrae nella posa dell’ellenistico «Ermafrodito dormiente»: al quale un piede mancante venne fatto aggiungere da Bernini, ma al suo posto Ontani introduce uno sproporzionato dito mignolo, appunto, che perturba come una Poupée perversa di Hans Bellmer

Una veduta della mostra «Facile ironia. L’ironia nell’arte italiana tra XX e XXI secolo» al MAMbo di Bologna. Foto: Carlo Favero

Questa torsione fisica e concettuale è la sintesi migliore del dispositivo ironico, così arduo da sintetizzare. Non a caso all’Hermaphrodito intitolò il suo libro d’esordio, nel 1918, Alberto Savinio: che all’ironia dedicava scritti importanti, pervasi di succhi nicciani decisivi pure per suo fratello de Chirico. Una volta Luigi Baldacci, per rendere l’ambiguità (anche sessuale) del più esplosivo scolaro di Nietzsche, l’Aldo Palazzeschi autore del Codice di Perelà, evocò «quel classico numero di varietà in cui il mimo è per metà vestito da donna e per metà da uomo e, volteggiando rapidamente, riesce a ballare con sé stesso»; e forse maggiore spazio si poteva dare a quelle pratiche di travestimento e disidentificazione che, dopo Duchamp, proprio de Chirico ha sperimentato da noi (cogli ineffabili autoritratti «en travesti», appunto, degli anni Quaranta). Preziosi in tal senso i lavori di Tomaso Binga (il cui gesto-chiave furono le nozze, nel ’77, con la propria stessa identità anagrafica di Bianca Menna), come la magnifica ricostruzione della «Carta da parato» del ’76.

Grande spazio viene dato al movimento femminista in guerra contro il «patriarcato». Ed è vero che molte artiste vi hanno impiegato le armi del rovesciamento e del sarcasmo: è il caso appunto di Binga, ma anche di Chiara Fumai o Monica Bonvicini (il cui détournement di una frase ominosa di Donald Trump funziona anche se non ci si ricorda dell’assunto sul quale ironizza). Ma non è affatto detto che l’arte militante sia di per sé ironica: non è il caso per esempio del bel lavoro di Marcella Campagnano, «Ruoli», che negli anni Settanta proseguiva «al femminile» quello storico di August Sander, Menschen des 20. Jahrhunderts.

Non poche le «scoperte» che si fanno al MAMbo, come quella della «banda del Marameo» del liceale Aldo Spoldi, che impazzava nel ’68 milanese (peccato allora non ci siano gli «Uccelli», ricordati però in catalogo da Jacopo Galimberti; al displuvio del ’77 ci sono gli Indiani Metropolitani, con Pablo Echaurren, ma manca il gruppo del «Male», una cui preziosa antologia è appena uscita da DeriveApprodi), o delle femministe napoletane del Gruppo XX (poi Gruppo Donne/Immagine/Creatività). Sul versante della poesia visiva mi paiono fuori fuoco, invece, le presenze di Nanni Balestrini e Patrizia Vicinelli: la cui contestazione linguistica è analitica, e non così ironica. Opportuno invece lo spazio dato agli autori del Mulino di Bazzano, Adriano Spatola e Giulia Niccolai, ma grave è l’assenza del geniale reggiano Corrado Costa, vero Buster Keaton dell’avanguardia di quegli anni. 

Per alludere alla scarsa fortuna da noi del «fantastico», diceva Savinio che quella cicogna non ama fare nido in Italia. Uscendo dal MAMbo si finisce per pensare che possa davvero esserci congeniale, invece, l’ibrido ornitorinco dell’ironia: questa almeno, una ventina d’anni fa, la tesi di Andrea Bellini (in un articolo, ricordato da Balbi in catalogo, che ora apre la sua antologia di scritti New York Tales e altre storie, raccolta l’anno scorso da Politi Seganfreddo), che riprendeva una «categoria italiana» messa a fuoco da Giorgio Agamben, riflettendo a suo tempo sulla Commedia dantesca (e sul suo titolo): quella di una «deliberata vena ironica e antitragica» della nostra cultura. Se davvero così fosse, in tempi così poco inclini all’ironia come i nostri, ci potremmo dire di nuovo all’avanguardia. Forse è un wishful thinking, ma se ci strappa un sorriso non è certo un male.

Giuseppe Chiari, «L’arte è finita smettiamo tutti insieme», 1974. Courtesy Frittelli arte contemporanea, Firenze

Cinzia Ruggeri, «Collezione P/E 1988, s.d. / Collection S/S 1988», n.d. Archivio Cinzia Ruggeri, Milano

Andrea Cortellessa, 23 marzo 2025 | © Riproduzione riservata

Il MAMbo dà sfogo alla nostra deliberata vena ironica | Andrea Cortellessa

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