Carlo Accorsi
Leggi i suoi articoliLa campagna «Italia: open to meraviglia» (lanciata il 20 aprile dal Ministero del Turismo ed Enit-Agenzia Nazionale del Turismo) dal punto di vista pubblicitario è impeccabile. Traduzioni a parte, con Camerino che nella traduzione tedesca diventa letteralmente «Garderobe» . Bisognerebbe che chi usa i traduttori automatici sapesse almeno due cose: le lingue e leggere. D’altronde il florilegio storico è esilarante: dalla Mouthfuls University (la Bocconi) alla Sandretto King Rebaudengo Foundation (su Getty Images, ad esempio), alla continua umiliazione del povero Paride il cui personale giudizio sulla bellezza delle tre Grazie («The Judgement of Paris») viene sistematicamente sostituito da quello dell’intera cittadinanza di Parigi.
Quando l’abbiamo fatta vedere a uno storico dell’arte si è scandalizzato: «Ma questa è roba per i cinesi!». Perfetto: non poteva esserci un giudizio più positivo. Centrato in pieno il più appetitoso e desiderato di tutti gli obiettivi possibili: se funziona con i cinesi basta e avanza. «Sembra fatta per mia suocera di Berlino: quando è andata in pensione ha fatto un viaggio in Italia esattamente così», questo è stato il giudizio aggiuntivo. La ministra Santanchè e l’ottimo studio Testa possono fregarsi le mani. La campagna funziona non soltanto per decine di milioni di cinesi, ma perfino per una colta manager tedesca. Che cosa desiderare di meglio?
Pazienza per numericamente sparuti intellettuali che la giudicano retrograda, convenzionale, oscena, banalotta e irrispettosa. La pubblicità la si fa per vendere, per aumentare il fatturato: +10% ci basta? Magari anche il 20% in più! Sarebbe un successo epocale. Questo sensazionale successo pubblicitario è in realtà la prova del naufragio finale della campagna, la sanzione del suo fallimento sostanziale, d’origine. Fare cassa, vendere biglietti in più, la politica dei numeri, delle statistiche, più voti, più voti, ancora più voti: è quello di cui abbiamo bisogno? La «turismite» non è la più infestante pandemia che minaccia l’Italia, il nostro biblico flagello delle cavallette, il cancro che corrode il nostro patrimonio? Le città più turistiche del mondo, Parigi e Barcellona, l’hanno capito. Il museo più visitato del mondo, il Louvre, l’ha capito. Sono così più intelligenti di noi?
La drammatica svista della ministra Santanchè (che perciò il ministro della Cultura Sangiuliano avrebbe già dovuto sfidare a duello: due Santi l’uno contro l’altro) è di volere più visitatori anziché migliori visitatori. Di non volere meno turisti, turisti migliori. Anzi, come scriviamo nel nostro «Vedere a»: anziché turisti, viaggiatori. Persone che sanno scegliere obiettivi, percorsi, consumi, scoperte. Gusti raffinati, sperimentati, squisiti. Il principale dei quali è la fuga dalla folla, dal contagio della «turismite» devastante. La previdente preservazione della bellezza e della qualità dal suo dissennato consumo. Quell’impeccabile campagna offre ed esalta esattamente quello che ospiti esigenti detestano, anziché quello che, come suol dirsi, «non ha prezzo» o che si paga a caro prezzo, quello che un Paese come l’Italia potrebbe e dovrebbe offrire.
Cioè la contemplazione di bellezze incontaminate, di luoghi, opere e paesaggi insoliti, noti a pochi, raramente visti, la degustazione di una qualità di vita sublime, seducente perché ancora un po’ segreta. La vera meraviglia che l’Italia ha ancora. Ma che, forse per fortuna, tutto sommato, la campagna non fa vedere. Perciò la madre di tutte le campagne probabilmente è un errore grossolano, un indice di miopia insensata, di spericolato autolesionismo, un autogoal faticosamente rimediabile, una dimostrazione di visioni corte, un segnale preoccupante di improvvida imprevidenza manageriale.
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