Nel 1627, alla morte senza eredi di Vincenzo II Gonzaga, Mantova precipitò nella guerra del Monferrato (1628-31), seguita nel 1630 dallo spaventoso sacco operato dai lanzichenecchi dell’imperatore Ferdinando II che culminò nella devastazione del Palazzo Ducale. Poi venne la peste e Mantova passò da 60mila abitanti a non più di 8mila. Ultima arrivò la carestia. Mantova non riemerse più. Nel 1707, l’ultimo indegno rappresentante del casato, il fellone Ferdinando Carlo, la lasciò schiava degli austriaci a cui rimase fino al 1866 quando si riunì all’Italia. Ma prima che capitasse tutto questo, il ducato visse un tramonto infuocato e iridescente, e tra la fine del Cinquecento e i primi trent’anni del Seicento la città e la corte furono ancora splendide e abitate da tutte le muse.
A Mantova, nell’anno 1600, arriva Rubens, che da qui inizierà la sua esperienza italiana destinata a cambiare la storia dell’arte europea. In città abitava anche, fra alti e bassi di umore e di fortune, Claudio Monteverdi che stava componendo, fra l’altro, l’«Orfeo». Tutto ancora sembrava fiorire anche se i bilanci dello Stato cominciavano a scricchiolare. A reggere in equilibrio le sorti del Ducato era Annibale Chieppio (1563-1623), potente segretario ducale e consigliere di Stato, grazie al quale, fin che visse, le cose andarono relativamente bene. Il conte Chieppio intreccia la sua biografia, sino quasi a mescolarla, con quella dei Gonzaga. Non solo controlla e amministra per circa un trentennio il governo dello Stato, ma gestisce anche i rapporti tra la corte e il fitto stuolo di artisti e personaggi che vi ruotano intorno: pittori, architetti, musicisti, scienziati, geografi, accogliendone lamentele o richieste da inoltrare ai Gonzaga.
Nel gruppo spicca il giovane e promettente Pietro Paolo Rubens, che allaccia con Annibale un duraturo rapporto d’amicizia. Molti dei suoi denari il Chieppio li spende nel restauro del «nobilissimo palazzo» in Contrada della Serpe, l’attuale Palazzo d’Arco, acquistato nel febbraio del 1602. Attestazione del livello di ricchezza raggiunta e uno degli elementi principali su cui si fonda il riconoscimento del vivere «more nobilium», la casa riveste anche un significato particolare, privato: è lo specchio dei gusti e delle scelte di vita di chi l’abita.
All’abile e intelligente, e fino ad oggi sconosciuto dal punto di vista collezionistico, Annibale Chieppio è dedicata una mostra aperta nelle sale di Palazzo d’Arco dal 20 aprile al 3 novembre. «Annibale Chieppio (1563-1623). “Cose rare e preziose” tra Mantova e i Gonzaga», a cura di Paola Venturelli, è dedicata a questo importante personaggio e agli oggetti conservati nelle sue due dimore, quella cittadina, poi diventata l’attuale Palazzo d’Arco, e quella suburbana di Olmo Lungo.
Chieppio è noto agli storici dell’arte soprattutto per il suo ruolo di mediatore fra Vincenzo Gonzaga e Rubens. Fu una sorta di parafulmine del ducato, e dai carteggi e dai documenti emerge la sua abilità nello scansare i pericoli, i mugugni e le proteste degli artisti che non venivano pagati (Rubens per primo), nel saper sopire, smussare, far tacere. Non era nato ricco, si era fatto da solo ed era ambizioso più che di soldi di riconoscimenti e di consensi sociali. I suoi 15 figli ebbero come padrini e madrine uno stuolo di duchi e duchesse e lui divenne nobile. Si era laureato in legge a Bologna e fu anche fine letterato, tanto da essere ammesso nell’Accademia degli Invaghiti. Non c’è ambasciatore europeo che non lo ricordi e non lo lodi nelle sue corrispondenze, ma è il pettegolo veneziano Francesco Morosini che, nel 1608, lo disegna meglio di tutti: «Il Chieppio ha la cura del Stato di Mantova e supera tutti in autorità, (…) di povero ch’era, ora possiede più di 6.000 scudi d’entrata, un nobilissimo palazzo in Mantova e ogni giorno accresce la sua fortuna».
La mostra espone quanto Chieppio riuscì a radunare durante la sua vita: dipinti (molti ritratti) e opere di pittori di pregio, copie da quadri famosi, con molte sorprese. Il ritratto della moglie, irrigidita dentro una grande gorgiera di pizzo e adorna di gioielli come una statua votiva, è raffinato lavoro del pittore di corte Frans Pourbus il Giovane. Ma in casa c’erano anche strumenti musicali rari e pure un automa che suonava. A cavallo Chieppio (che in un ritratto del Pourbus appare alquanto paffutello e più simile di sembiante a un dimesso avvocato di provincia che a un onnipotente ministro) doveva essere splendido: ci sono ancora le bardature in velluto rosso ricamato in oro che trasformavano le sue bestie in Ferrari semoventi a quattro zampe.
La sua passione però erano i reliquiari e le reliquie, in un tempo di fede intensa con incursioni nel feticismo religioso. Le reliquie servivano a molte cose, anche a stringere o consolidare alleanze politiche. Quelle dei Gonzaga nel tesoro della Basilica palatina di Santa Barbara, dove è conservato anche il famoso «Preziosissimo Sangue», furono alla base di rapporti diplomatici e di significative amicizie. Il ministro seguì l’esempio dei suoi duchi. Possedere reliquie importanti era segno di protezione celeste ma rappresentava anche uno status symbol da mostrare (immagino inviti a pranzo sul tono: «Vieni a trovarmi che ti mostro un pezzo della veste di Carlo Borromeo o un frammento del cranio di San Pietro»).
Di casa Chieppio spiccano, in mostra, alcuni oggetti come il raffinato altarolo di manifattura romana del 1606 con «Cristo in pietà e Maria con il Bambino» in ebano, marmo, argento dorato, pergamena miniata e grondante fasto funereo. Ma fra tutti emerge, magnifica, la santa Croce, di manifattura milanese, del 1599 in ebano, oro, argento, smalti, cristallo di rocca, pietre dure, perle, rubini e gemme. È un oggetto squisito, che vale da solo una visita approfondita alla mostra. Con straordinario artificio il frammento ligneo è stato inserito in una sfera di cristallo di rocca sovrastata da una crocettina d’oro gemmata e perlata, portata da due angeli d’oro cesellati con tanta abilità da parere pronti a spiccare il volo, ornati da gemme in castone: una delizia per palati raffinati.
La mostra è accompagnata da un catalogo scientifico (Silvana Editoriale) frutto di ricerche di prima mano (cosa non scontata oggi), con interventi di Raffaele Tamalio, Raffaella Morselli, Cecilia Paolini, Carlo Togliani, Roberta Piccinelli, Paola Tosetti Grandi, Paola Venturelli e trascrizioni di documenti inediti a cura di Francesca Rapposelli e Silvia Tosetti.