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Achille Mauri

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Achille Mauri

Il «messaggero» tra libri e voodoo

«È la distribuzione che tiene in piedi l’editoria e noi dobbiamo rendere meno empirico il lavoro dei librai. L’arte? È la carta assorbente del dolore. Me lo ha insegnato mio fratello Fabio»

Massimo Melotti

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Achille Mauri fa parte di una famiglia che è tuttora protagonista della storia dell’imprenditoria culturale italiana. La «Società Generale delle Messaggerie Italiane di Giornali, Riviste e Libri» viene fondata nel 1914. Oggi la holding comprende Messaggerie Italiane, il più grande distributore di libri, e il GeMS Mauri Spagnol, il secondo gruppo editoriale in Italia. Achille Mauri di quella società è stato amministratore delegato e oggi ne è presidente. Ma accanto a un profilo imprenditoriale di tutto rispetto vi è un’altra faccia della sua personalità. Achille Mauri è uomo attento al divenire del mondo che ha girato in lungo e in largo, con uno sguardo da antropologo. Ha indagato in Africa costumi e usanze, è impegnato in istituzioni culturali per la formazione delle professionalità attinenti al libro, cura l’Archivio Fabio Mauri, il fratello artista scomparso. È autore dei romanzi Anime e acciughe e Il paradosso di Achille, entrambi pubblicati da Bollati Boringhieri.
 

Leggendo la storia delle Messaggerie e della sua famiglia, si coglie la presenza di personaggi che hanno determinato lo sviluppo dell’impresa e al contempo sono stati attenti ai processi culturali legati al libro ma anche, come lei, che hanno percorso la strada della creatività. Basti ricordare Fabio Mauri, che ha ricoperto incarichi di responsabilità aziendali. 

L’editoria è un mestiere difficilissimo e al contempo magnifico. Una volta, parlandone con Umberto Eco, gli dissi che pensavo che la gioia di un editore quando incontra un bel libro sia addirittura superiore a quella di un produttore cinematografico che incontra una bella sceneggiatura. La strada che deve fare lui per arrivare a completare il prodotto è enorme e potrebbe essere deluso dalla scelta degli attori. Un libro è una cosa finita. È una cosa che vive. Non ci possono essere molti imprevisti nel suo cammino. Ma l’editoria è purtroppo anche il mestiere del no. Sono molto più i libri che non si pubblicano e visto che fa riferimento alla nostra famiglia, noi per 80 anni siamo stati solo distributori e non editori. La nostra mentalità e la nostra forza è stata sempre quella di concentrarsi sulla distribuzione e sul progetto di rendere meno empirico il ruolo dei librai. È una distribuzione efficace che tiene in piedi l’editoria. 

Per la sua attività ha avuto modo di essere presente ai primi passi del Collettivo 63 che cercava di rivoluzionare i modelli culturali dell’Italia del tempo. 

Il Gruppo 63 era un gruppo di giovani geni e il loro grande meeting internazionale è avvenuto in casa Bompiani a Lerici, coordinato da mio fratello Fabio. C’erano tutti ed è stata una strepitosa giornata in giardino, con bagno a mezzanotte alla spiaggia di San Giorgio. Umberto Eco ed io siamo stati svegliati dal rientro in porto dei pescatori. Avevamo dormito sul bancone di alluminio della bancarella per la vendita del pesce. Poi abbiamo raggiunto al Bar Sport Pasolini e Ottieri. In effetti io avevo il mio da fare a difendere la mia futura moglie, Diana, dalle avance dei giovani geni. Subito dopo pubblicai con Eco «Versus», credo l’unica rivista esclusivamente di semiologia mai esistita. Tra le altre firme, i protagonisti erano Umberto Eco, Noam Chomsky e Roland Barthes.

Com’è nato il suo interesse per l’Africa e per i suoi riti animistici? 

Editavo con Arthur E. Powell (1882-1969 scrittore e teosofo, Ndr) la rivista «Pianeta»: parlava di ufo, spiriti e fantasmi. Aveva un successo internazionale. Mentre trascorrevamo le vacanze di Pasqua in Toscana mi arrivò una lettera dal Dahomey (attuale Benin) in cui c’era scritto che era giunto il tempo che la cultura africana e la medicina tradizionale venissero trascritte e divulgate. E ci chiedevano risme di carta, carta carbone, una macchina Olivetti. La lettera era firmata Aho René Glele, discendente del dio Agassou, erede della monarchia decaduta e capo voodoo. Dopo sei anni, il giorno di Pasqua, lo stesso postino ci consegna un’altra lettera che ci diceva che ci aspettavano per la cerimonia della nostra iniziazione dopodiché avremmo potuto realizzare un documentario sulla magia, sulla medicina tradizionale e sul voodoo come religione. La Rai ha finanziato la spedizione e trasmise il documentario su Rai2 negli anni Settanta. Ma la vera motivazione è che non c’è niente che mi piace di più della gente. Ho una terrificante attrazione per i diversi. 

Come si è avvicinato all’arte contemporanea?

Rubando, da quando avevo nove anni, i disegni di Fabio. Io ho suoi disegni del ‘54. Non potevi star vicino a Fabio senza essere totalmente immerso nelle cose che faceva. Durante la guerra ci eravamo trasferiti a Rimini. Fabio aveva 14 anni. Un giorno arriva una banda di uomini armati che uccidono Pippo, il nostro maialino con il quale giocavamo. Fabio si toglie il suo camice da pittore, sporco di colori ad olio, e lo stende sul maiale. Il gruppo armato si incazza perché sporca il maiale di colore. Mia madre, spaventata, richiama Fabio, che le risponde «tu non sai chi sono io». Mia madre, Maria Luisa Bompiani, dice agli altri figli «venite qui che Fabio ci racconta chi è». E Fabio dice «Io sono un artista». Il compito dell’arte è fare carta assorbente dell’orrore. Aveva fatto una sacra sindone.

Quali sono stati per lei gli incontri più importanti nel campo dell’arte?

Sicuramente il primo libro di Lucio Fontana con il multiplo allegato e le foto di Ugo Mulas. Poi Enrico Castellani con le foto di Giorgio Colombo. Avrei potuto continuare all’infinito se non fossero stati un immenso insuccesso. Si poteva avere per 10mila lire un libro d’arte con un multiplo che oggi costerebbe 10mila euro ma nessuno li comprava. Il contrappunto di questo insuccesso fu il successo dei Fratelli Fabbri con «I Maestri del colore» con la nuova impaginazione dei dettagli delle opere portati a tutta pagina che aveva inventato Skira. A Roma abitavo a sessanta metri dal Caffè Rosati, il luogo di ritrovo degli artisti romani e di quelli che venivano a Roma. Vi potevi trovare Cy Twombly, Duchamp, Jim Dine. Ho una vecchia foto che ritrae al Rosati Tano Festa, Mario Schifano, Franco Angeli, Dorazio, Perilli, Fabio Mauri, Kounellis, Giosetta Fioroni e Mimmo Rotella con il gallerista Plinio De Martiis. Li ho collezionati tutti e, tra l’altro, sono stato editore di «Alfabeta», la rivista di Balestrini, e ho collaborato alla nascita di «Flash Art».

Quale opera della sua collezione le è più cara?

«Esso» del mio carissimo amico Mario Schifano. Era il Pop romano che era molto vicino al Barocco romano e che era venuto prima di quello americano. «Esso» era mettere un brand al posto di un capitello o di una lupa. Quando Fabio ha presentato «L’isola», una commedia con palme, il mare e la luna, ti trovavi di fronte a un’opera completamente pop. La mia collezione nasce in quel periodo con le opere di quegli artisti ma la parte centrale rimangono i lavori di Fabio che continuavo a collezionare. A dire la verità con modalità che non lo rendevano particolarmente felice. Tra le carte dell’Archivio Mauri abbiamo trovato questo appunto: «I miei fratelli manager mi trufferanno sempre. Achille, che mi deve 300mila lire, è passato da studio, me ne ha date 150 e si è portato via un altro quadro». Oggi il mio impegno è per l’Archivio Mauri Associazione Fabio Mauri per l’Arte l’Esperimento del Mondo che non solo cura e promuove l’opera di Fabio ma promuove l’arte nel mondo. Me ne occupo curando i rapporti con i musei, i collezionisti e le gallerie, in particolare con Hauser & Wirth che sono i rappresentati dell’opera di Fabio a livello internazionale. 

I suoi romanzi sono basati sul superamento del confine tra vita e morte, tra vita e aldilà... 

Io critico tutto ciò che ci hanno venduto sull’aldilà, prima di tutto l’inferno. Non parliamo poi del limbo, eliminato come un’errata corrige, e poi il paradiso. Ma che cosa si fa in paradiso? Ci sono librerie, si gioca a calcio? Si può andare al cinema, a teatro? Non so. E poi perché dobbiamo recuperare i corpi che abbiamo sopportato una vita? Spesso avremmo voluto essere qualcun altro, non siamo mai stati la stessa persona: da bambini a vecchi siamo sempre cambiati. Quindi che corpo uno s’immagina di recuperare il giorno della resurrezione? Saremo tutti vecchi? È impossibile, è orribile. Quindi nessuna attrattiva da nessuna religione. Il cardinal Martini una volta mi confidò che lui nell’aldilà avrebbe voluto trovare Bach, stare un po’ con lui, e poi Beethoven e poi Mozart. “Ma se il Signore non ha pensato niente di particolare per me visto che gli ho dedicato un’intera vita, senza che lui mi abbia mai dato un segno beh! sarà una grande delusione”. Questo mi ha dato un’idea di connessioni. Poi Umberto Eco ha scritto una volta che si immaginava l’aldilà come un’immensa biblioteca fatta di passato, presente e con certezza anche di futuro.

Massimo Melotti, 01 febbraio 2019 | © Riproduzione riservata

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