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Alessandro Bergonzoni

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Qui ci vuole un salto in altro

Alessandro Bergonzoni: «Chi vede le mie opere può entrare in un altro stato di consapevolezza e percezione»

Massimo Melotti

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«L’importanza dei musei, dei teatri e dei cinema doveva essere capita prima del Covid-19. La pandemia ci ha insegnato che non dobbiamo cercare la luce in fondo al tunnel, ma essere noi stessi la luce in quel tunnel».

Alessandro Bergonzoni (Bologna, 1958), attore, artista e poeta, è conosciuto per il fatto di utilizzare nelle sue opere un linguaggio funambolico e surreale, che non tiene conto di canoni, limiti e confini.

Mentre preparavo questa intervista, ho pensato che lei avrebbe potuto rispondermi con il linguaggio per il quale è divenuto famoso, aprendo a impensabili orizzonti ma, allo stesso tempo, rendendo banali le mie domande.
Non ci sono quasi mai domande banali. Nel mio caso, poi, è la parola che mi ha scelto. Ogni mattina quando mi sveglio ho una lista d’attesa, non di persone ma di parole. Mi battono su una spalla e mi dicono: possiamo arrivare? Ci puoi ascoltare? Ci puoi vedere? Possiamo entrare? Io mi sento uno «scritturato» non uno scrittore, un «autorizzato» non un attore. Il mio mestiere è la percezione. Io alzo le antenne. È grazie a questa involontarietà a questa «impollinazione artificiale», portata dal vento, che io scompongo, compongo, e ricompongo. Io dico «penso spesso» ma lo spesso non è un avverbio di tempo è un aggettivo che deriva da spessore. Sono strati che si accumulano uno sopra l’altro, con continui incroci, richiami. Ecco dove nasce il mio linguaggio. Quando dico: «Oggi hai avuto la custodia di tua figlia, sei contento?» «No, perché dentro lei non c’era». È un esempio di come la parola «custodia» sia andata a scoprire un altro significato, quello dell’affido, dove c’è il tema sociale. Al contempo scatta anche la risata data dal meccanismo visionario, quello che chiamo «un salto in altro». Il «prendere in custodia» è divenuto una performance che ho tenuto in vari musei come Brera e gli Uffizi. Proietto, accanto alle opere di Giotto, Cimabue e Caravaggio, l’immagine di un uomo che lo Stato ha preso in consegna, Stefano Cucchi, che poi è stato ucciso. L’ho messa accanto a un Cristo, in quanto opere, in quanto sacre. Come lo Stato prende in carico i beni culturali come patrimonio, così avrebbe dovuto farsi carico del detenuto, opera da tutelare. Dalla comicità viene fuori un ennesimo senso che scatena altro significato, altro linguaggio. L’idea dell’affido è partita ed è andata a toccare l’arte, la bellezza, la sacralità, il martirio, l’ingiustizia. Possiamo dire che il mio stile nasce dall’unione continua, ossessiva, compulsiva di tutti questi «termini», che non hanno termine, che non finiscono mai ma che coincidono.

I suoi primi spettacoli sono già caratterizzati dall’adozione di un linguaggio del tutto originale e spiazzante con battute come «credeva che un piatto di spaghetti fosse una versione impegnativa del gioco degli Shanghai». Guardava alle esperienze del cabaret di quegli anni o all’affabulazione, al Grammelot di Dario Fo? 
Il teatro di Dario Fo mi ha sempre coinvolto così come Carmelo Bene, ma io non ho mai cercato un maestro o un riferimento, proprio perché credo in un altro divenire. Non mi sento un attore nel senso vero del termine, e non faccio riferimenti, satirici o ironici, che sono tipici del cabaret. Il cabaret lavorava sul quotidiano, sugli avvenimenti che divenivano satira, mentre io ho incominciato a lavorare più su un linguaggio che fosse ricerca metafisica. Mi interessano più le visioni.

Il suo debutto avviene a 24 anni con lo spettacolo teatrale «Scemeggiata». Poi è la volta del Maurizio Costanzo Show e de «Il bello della diretta», condotto da Loretta Goggi, il classico varietà di prima serata di Rai Uno, che sanciscono il suo ingresso nella televisione. Come andò?
Le mie prime esperienze televisive sono state un pugno nello stomaco per la tv di quei tempi. Nei miei monologhi non davo dei riferimenti. Ai tempi della Goggi e di Costanzo si utilizzava la caricatura, la presa in giro, la parodia che ho sempre poco amato. Il pubblico mi guardava e sembrava chiedermi: tu da dove vieni? Che cosa ci dici? Di che cosa parli? I produttori televisivi mi dicevano: se tu non parli della realtà, non riuscirai mai a sfondare. I canoni della comicità erano quelli dell’imitazione, dell’ironia. Per me «l’imitazione» era una «limitazione», quella di essere televisivo. Ho capito subito che i miei riferimenti dovevano essere altri: la radio, la scrittura, i giornali, il teatro, gli incontri. Il mio linguaggio si è evoluto anche attraverso l’abbandono del medium televisivo, che io non rispetto nemmeno ora. In televisione mi si vedrà difficilmente. Paradossalmente la gente mi ferma per la strada e mi dice: «Sono felice di non averla vista ieri sera in quella trasmissione», «Per fortuna non ci vai, per fortuna non ci sei nei talk show». È il piacere della mancanza.

Sin dagli anni Novanta ha tenuto incontri con gli studenti. Quale ruolo pensa che l’arte debba svolgere nella società? 
Per me è fondamentale prendere «p’arte». Raccontare l’arte e il teatro andando nelle scuole e nelle carceri. Ecco dove è cambiata la mia posizione di artista: andando a raccontare gli abbinamenti che l’arte deve fare con la vita e la vita con l’arte. Ecco perché uso il tema «capolavorare». Vuole dire lavorare ad arte, ogni mestiere deve essere fatto ad arte. Significa che il ponte Morandi non sarebbe caduto se qualcuno avesse fatto «ad arte» il suo lavoro. L’incuria di qualcuno ha fatto sì che il ponte cadesse. Lavorare ad arte significa metterci dentro una sacralità, una coscienza, una bellezza.

Negli anni Duemila lei collabora come testimonial con la Casa dei Risvegli-Amici di Luca De Nigris, struttura dedicata alla ricerca sul coma e alla riabilitazione. La comicità svela una sua funzione catartica, che interviene nella medicina e quindi nella società. 
Sono partito dalle scuole dicendo: «Ragazzi vengo io da voi». La scuola è il futuro Parlamento. Il futuro Governo nasce dalla scuola. È da li che parte tutto. Vado negli ospedali, nelle prigioni, per far vedere il rapporto che c’è tra arte e scienza, tra dolore e bellezza. Il mio linguaggio è cambiato anche perché ha cominciato a infiltrarsi in ambiti che apparentemente non hanno niente a che vedere con il teatro, con il linguaggio, con l’arte. Ho fatto degli incontri con una persona affetta dalla sindrome locked-in, una persona che sentiva e vedeva ma non poteva muovere nessuna parte del corpo. Ho portato nelle facoltà di medicina il corpo devastato, il corpo piegato, il corpo anomalo e gli ho regalato una scultura che ho chiamato la «lesion d’onore». La comicità si è intrisa di drammaticità. Parlo sempre di «arte lesa», mi costituisco «arte lesa». L’arte lesa è quando un corpo viene leso nella sua bellezza e diversità e acquista un’altra bellezza. Gli studenti hanno potuto vedere un corpo che poteva rispondere solo muovendo un mignolo. Come lo vogliamo chiamare questo? Teatro, arte, performance, comunicazione. Per me tutte queste cose sono collegate. Salvare una persona in mare e vedere i corpi abbandonati sulla spiaggia, morti annegati, non ha a che fare con la Pietà di Michelangelo o con il Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino a Napoli? E ancora, non ha a che fare con la giustizia, con l’istruzione? Noi abbiamo il dovere di salvare. Ecco che cosa dobbiamo andare a dire nelle scuole: che nessuna persona può essere lasciata annegare. È una questione di sacralità, non solo di diritto, di giustizia, di politica. Quando queste madri tengono in braccio i loro bambini annegati non è la Pietà quella? Non è un’opera? Non è nel museo della vita? Non è uno strazio che ha a che fare anche con la bellezza? Non possiamo andare a vedere solo nei musei, la bellezza, la tragedia, la paura, la morte, dobbiamo anche collegarli all’essere.

Il suo linguaggio, divenendo onnicomprensivo, esce dai canoni tradizionali del far arte. 
Io lo definisco «Voto di vastità», e per fare ciò mi devo liberare da ogni sovrastruttura. A un certo punto ho maturato la convinzione che non era necessario solo fare mostre. La mia intenzione è uscire dal canone dell’offerta e della richiesta. Il lavoro che sto facendo ora è in una zona di mezzo, una No Man’s Land per poter raccontare. L’incatalogabilità è la mia condizione. Chi vede le mie opere può entrare in un altro stato di consapevolezza e percezione.

In un suo dialogo sul senso dell’arte viene citato Beuys... 
La lettura del mio lavoro fatta dagli altri a volte mi illumina e mi insegna. Io non conoscevo bene la ricerca di Beuys anche se i critici hanno individuato elementi in comune. Nel mio lavoro ho avuto un’intensa frequentazione con artisti come Paladino, per il quale ho interpretato il Mago Festone nel suo film sul Don Chisciotte, con Spalletti, con Cuniberti, con Pericoli e con Pistoletto. Ho pubblicato Bastasse grondare, con un dialogo con Emilio Isgrò. Un lavoro che non è un testo di poesie, né un catalogo. Lo definisco «disegni di conseguenze», di una rincorsa che il silenzio prende, prima di arrivare a dire. Di una «pre-munizione» di qualcosa che deflagrerà e anche un mantra, un mentre. Non avevo mai letto James Joyce ma alcuni studiosi vi hanno trovato affinità con il mio lavoro.

Il suo spettacolo «Trascendi e sali» al Teatro Elfo di Milano ha avuto la sua ultima messa in scena proprio nel giorno in cui sono scattate le norme anti Covid-19...
La fine di un‘epoca, ma se ne apre un’altra. Il Covid-19 ci ha insegnato che non dobbiamo cercare la luce in fondo al tunnel ma dobbiamo essere noi la luce dentro il tunnel. La considero un’illuminazione personale. Se non proviamo non conosciamo il valore delle cose? L’importanza della cultura, del cinema, dei musei, dei teatri, dell’arte tutta doveva essere capita prima. Devono essere considerati beni non secondari ma primari, di infinità necessità.
 

Alessandro Bergonzoni

Massimo Melotti, 28 febbraio 2021 | © Riproduzione riservata

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