Arabella Cifani
Leggi i suoi articoliQuando Pablo Picasso muore nel 1973, i francesi lo celebrano come un genio nazionale. Lo Stato francese accoglie le sue opere nei musei e lo assimila alla propria storia. Ma quanti sanno che all’artista era stata rifiutata la naturalizzazione? Quanti immaginano il clima di sospetto e di esclusione di cui fu vittima per quasi tutta la vita, culminato nel rifiuto da parte del Louvre nel 1929 alla donazione di «Les Demoiselles d’Avignon»? La scrittrice Annie Cohen-Solal rilegge in un libro molto innovativo, ben scritto e ricco di documenti inediti, le origini del mito di Picasso e delle sue molte contraddizioni. La studiosa si è addentrata coraggiosamente negli archivi francesi, soprattutto in quelli governativi e della polizia, estraendone i segreti di una storia sorprendente.
Si parte dall’ottobre 1900, quando Picasso giunge per la prima volta a Parigi da Barcellona e si assiste alla crescita artistica e umana del pittore che fu anche un perspicace uomo d’affari, capace di districarsi tra collezionisti e mercanti d’arte senza scrupoli. Questa disinvoltura fece percepire al Governo francese la nascita del Cubismo come un pericolo per «l’integrità morale» della Nazione, come uno scontro fra tradizione e modernità, tra la Francia della «gente per bene» e i pericolosissimi «stranieri». Il racconto di Cohen-Solal giunge fino ai giorni nostri sollevando molti interrogativi: «Lo scandalo che vede il più grande artista del Novecento marchiato e schedato perché straniero non rimanda forse agli attuali rigurgiti di ordinaria xenofobia? Non rammenta l’ostilità dilagante di fronte alla crisi migratoria che stiamo attraversando?». A cinquant’anni dalla morte dell’artista, un libro che, come ha giustamente scritto «The New York Times», «ritrae il maestro spagnolo come un emarginato e mette sotto accusa la cultura francese che lo ha reso tale». Pubblicato in Francia nel 2021, ha vinto il prestigioso Prix Femina per la saggistica femminile francese. Il volume precede di qualche mese la grande mostra «Picasso lo straniero», in programma nel Palazzo Reale di Milano e in collaborazione con Marsilio Arte, dal 20 settembre al 2 febbraio 2025.
Ne pubblichiamo in anteprima, su gentile concessione dell’editore Marsilio, alcuni stralci.
Mentre il «paese legale», pieno di illusioni di grandezza, si lascia trasportare beato dal marciapiede mobile, l’odissea dei giovani artisti entusiasti da poco giunti a Montmartre continua alla meno peggio. Tentare di accedere al mondo dell’arte, anche tramite un mercante catalano, non è impresa facile. Ma non hanno altra scelta. Casagemas e Picasso, una strana coppia. Casagemas somiglia a un cormorano ferito, ha il naso lungo come un becco e il mento sfuggente, è malaticcio, troppo alto, troppo magro, troppo fragile; sulla sua folta capigliatura bruna il cappello sembra in bilico. Sarà tre spanne più alto del suo amico Picasso, che è robusto, tarchiato, energico, tutto muscoli. A dicembre, insieme, lasciano Parigi per rientrare a Barcellona. Ma nel febbraio 1901 Casagemas torna a Parigi, da solo. E pochi giorni dopo si suicida. [...] Continuo a leggere; continuano i colpi di scena. Vengo a sapere che Mañach è entrato nello studio di Picasso nonostante il portinaio abbia cercato di impedirglielo e ha tentato di impadronirsi dei quadri contenuti nel locale. «Verso le ore 3 si è presentato e ha cercato di entrare a forza nel vano suddetto, ha spezzato il lucchetto e se ne stava andando con un quadro quando è stato fermato; allora ha spaccato un ombrello e ha rotto i vetri e s’è gettato sul portinaio percuotendolo, prendendosela poi con vari inquilini accorsi a prestare soccorso. Ha sferrato un forte pugno in pieno volto all’agente Moncoyoux. Ha inoltre insultato gli agenti chiamandoli maiali». Non c’è ombra di dubbio: il 28 dicembre Mañach ha tentato di scassinare il primo atelier parigino di Picasso. Ma Picasso l’ha mai saputo? Ha mai saputo che proprio il suo mercante di fiducia, subito dopo la sua partenza, ha cercato di rubargli i quadri lasciati a Parigi? Stando ai biografi, Picasso aveva diffidato di Mañach fin dall’inizio. Malgrado ciò, è costretto ad accettare la sua ospitalità nel maggio 1901, al momento del secondo viaggio a Parigi in occasione della mostra organizzata proprio da Mañach alla galleria Vollard. Successivamente, Picasso lo presenterà arrogante, duro, protervo - in camicia bianca e cravatta rossa - nel ritratto pieno di ironia che oggi si trova alla National Gallery of Art di Washington. Grazie ai ricordi di Jaume Sabartés, che sostiene già amichevolmente Picasso, sappiamo com’è avvenuta la rottura tra l’artista e il mercante nell’inverno del 1901: «Abbiamo trascorso la notte nello studio di Durrio e ci siamo alzati prestissimo. Picasso vuole arrivare allo studio [di Mañach] prima che passi il postino. [...] Quando Picasso apre [...] Mañach è sdraiato sul letto a pancia in giù, vestito di tutto punto, parla da solo, come se stesse delirando [...]. Picasso gli lancia un’occhiata sprezzante [...]. Ormai è sicuro che qui non potrà continuare a lavorare. [...]. I servizi di polizia francesi ritengono che gli «anarchici spagnoli» più degni di nota siano gli emigrati catalani (come il mercante d’arte Pere Mañach), spesso per giunta fuoriusciti politici (come gli scrittori Jaume Brossa e Pompeu Gener). Picasso li conosce. Appena torna a Parigi viene considerato sospetto.
Picasso. Una vita da straniero
di Annie Cohen-Solal, traduzione di Emanuela Bertone, 640 pp., Marsilio, Venezia 2024, € 30
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