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Ludovic Nkoth Proof of the Incredulous, 2025 Oil on canvas / Olio su tela 152.4 × 233.6 cm / 60 × 92 inches Ex. Unique

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Ludovic Nkoth Proof of the Incredulous, 2025 Oil on canvas / Olio su tela 152.4 × 233.6 cm / 60 × 92 inches Ex. Unique

«Il mio segno porta con sé urgenza e tenerezza». Dialogo con Ludovic Nkoth

Abbiamo incontrato il pittore a Milano per una conversazione in anteprima in occasione della sua mostra personale Physical Proof da MASSIMODECARLO.

Le pennellate si rincorrono, si scontrano, si sovrappongono: a volte leggere come una danza, a volte taglienti come un fendente. Gesti coreografici e coreografie di gesti, lotte di immagini e immagini di lotte: questa è la cifra della pittura di Ludovic Nkoth. Classe 1994, nato in Camerun, cresciuto negli Stati Uniti e oggi attivo a New York, Nkoth ha costruito negli anni un linguaggio pittorico che vive di equilibrio e tensione. La sua ricerca affronta i temi della diaspora e dell’identità nera attraverso una pittura che unisce dolcezza e urgenza, intimità e forza, memoria e resistenza. Le sue opere fanno oggi parte di importanti collezioni pubbliche come Yuz Museum, Hammer Museum, ICA Miami, Fondation Louis Vuitton, High Museum e Studio Museum Harlem. Nascono come esperienze intime in studio per poi farsi universali: si insinuano con la grazia di una carezza e colpiscono con la forza di un pugno, depositandosi negli occhi, nello stomaco, nella memoria di chi guarda. Questa tensione duale ritorna anche in Physical Proof, la mostra che inaugura da MASSIMODECARLO a Milano il 24 settembre. Al centro della ricerca c’è questa volta il corpo, inteso come agente e sintomo delle pressioni sociali: schermidori, pugili e ballerine sono colti nell’istante in cui la loro fisicità diventa metafora di una condizione universale, sospesa tra forza e vulnerabilità, disciplina e fragilità.

Lo abbiamo incontrato in anteprima per parlare del nuovo progetto e di cosa significhi, per lui, fare pittura oggi.

La sua pittura è riconoscibile per le pennellate fluide, che restituiscono a chi guarda il movimento della tua mano. In qualche modo lo spettatore diventa partecipe di ciò che è accaduto in studio, prima ancora che l’immagine prendesse forma. Cosa si cela dietro quel gesto?
Il mio segno porta con sé urgenza e tenerezza; direi che è una coreografia con la tela. A volte la danza è irrequieta, quasi sconsiderata; altre volte rallenta, torna indietro, ripassa su territori familiari. Di solito parto da frammenti, schizzi, immagini d’archivio, una fotografia di famiglia o un istante colto per strada. Non sono progetti veri e propri, piuttosto semi. Da lì la superficie cresce a strati, come se stessi depositando la memoria stessa. Il pennello registra ogni avvicinamento e ritirata, ogni esitazione e insistenza. Lo dimostrano dipinti come Moving Mountains (2025): non è solo questione di forma, ma di ritmo, di presenza, di tempo.

Da questa danza emerge sempre una doppia dimensione: da un lato segni, macchie e stratificazioni compongono una sorta di mappa astratta, dall’altro la figura emerge gradualmente per raccontare una storia. 
È una parte centrale del mio modo di intendere la pittura. È la tensione che muove la mia pratica. I segni sottostanti, i graffi, le macchie, i ritmi sono come un’archeologia della tela, una mappa di dove il dipinto è passato, ed è da quel terreno che la figura lentamente affiora. Non cancello mai lo scontro tra i due livelli; voglio che lo spettatore senta quella frizione. Riflette ciò che siamo: esseri stratificati, sedimentati dalla memoria e dalla storia, ma costretti a stare nell’immediatezza del presente. Questo si percepisce particolarmente in Ovation of a Mirror (2025): il fondo è brulicante di gesti del passato, eppure le figure ti affrontano con una presenza innegabile. È in quello spazio intermedio, in quello scintillio tra mappa e apparizione, che la pittura per me si anima.

Ricordi la prima volta in cui ha sentito la pittura animarsi in questo senso? La prima volta che ha riconosciuto un lavoro come davvero suo?
Ricordo un momento durante il mio MFA quando realizzai un ritratto che sentii come completamente mio. Non era perfetto: la superficie era disordinata, le proporzioni sbagliate, ma portava con sé la mia storia — il Camerun, dove sono nato; il South Carolina, dove sono cresciuto; New York, dove sono diventato l’artista che sono. Era tutto compresso in una sola tela. Capii che la pittura poteva contenere contraddizioni, frammenti e, al tempo stesso, renderli un tutto. Non si trattava di produrre qualcosa di rifinito, ma di creare qualcosa di onesto. Quell’esperienza mi confermò che la pittura non era solo ciò che volevo fare: era ciò che dovevo fare.

Da allora le sue opere hanno continuato a raccontare storie lei vicine, legate alla famiglia, alla sua esperienza diretta o a persone a cui tiene. Qual è per lei il ruolo del pittore? E che tipo di impegno può avere la pittura?
Per me dipingere è un modo di stare con gli altri. Che io dipinga un amico, uno sconosciuto incontrato in un luogo come Château Rouge, o una figura tratta dal mio archivio, la loro storia si intreccia sempre con la mia. Il ruolo del pittore è quello di insistere sull’empatia in un mondo che spesso ci divide, ci frammenta. L’opera che dà il nome alla mostra, Physical Proof (2025), riflette proprio questo: parla di un momento collettivo di vicinanza, di figure che si sostengono a vicenda in una vulnerabilità condivisa. Attraverso la pittura posso dire: “Ti vedo, ti sento, la tua presenza conta”. Questo tipo di relazione mi sembra profondamente umano, quasi sacro.

Da questa prospettiva, la pittura sembra assumere un ruolo di collante sociale. Colpisce pensare che oggi, in un presente segnato da conflitti e tensioni globali, stia vivendo un momento di così grande successo. Forse è sintomatico, una risposta a un bisogno diffuso di presenza e vicinanza, oppure, tra le righe, qualcosa di reazionario. Vede più vantaggi o più rischi?
È vero, la pittura sembra essere ovunque, e questa ubiquità è insieme esaltante e precaria. Dimostra che il medium respira ancora, che ha necessità. Ma rischia anche di essere ridotto, appiattito a decorazione o merce, privato della sua risonanza. Per me la pittura non è mai solo produrre un’immagine; è produrre presenza. Stare davanti a Proof of the Incredulous (2025) non significa guardare un pugile, ma sentire la stanchezza, il dubbio, la resistenza. Sentire cosa vuol dire abitare un corpo che sopporta. La pittura non è ornamento, ma un atto che taglia il rumore per affermare l’essere stesso.

A breve tornerà a esporre da MASSIMODECARLO, questa volta a Milano, dopo Transferred Memories (Work No Dey) a Londra nel 2022. Cosa unisce questi due progetti e cosa invece li distingue? In che modo la sua pratica è cambiata in questi tre anni?
Transferred Memories (Work No Dey) parlava di come le storie viaggiano tra generazioni, attraverso gli oceani, di come la memoria diventa ereditata, trasformata, raccontata di nuovo. Physical Proof è più pesante, più incarnato. Parla meno di memoria e più di presenza — di cosa significa abitare un corpo sotto pressione oggi. In questi tre anni sono cambiato anche tecnicamente: passando dall’acrilico all’olio mi sono rallentato, il processo è diventato più deliberato. Le opere di Physical Proof portano questo peso. Sono meno affollate, più distillate, ma anche più audaci. In molti modi, sono una prova per me stesso che la pittura può ancora contenere tutto ciò che voglio dire.

Come nasce il progetto?
La mostra è nata dalla mia preoccupazione per la pressione: la pressione che ci imponiamo, quella di dover performare, quella che il mondo esercita su di noi. In Quiet Combat, il giovane schermidore si nasconde dietro la lama, quasi divorato da essa. In Proof of the Incredulous (2025), il pugile è messo all’angolo, ferito, ma ancora in piedi. Non sono semplici raffigurazioni di atleti; sono metafore di come ciascuno di noi affronta forze più grandi di sé. Mi sono avvicinato a queste figure come a degli specchi: a volte entriamo volontariamente nel ring, altre volte ci veniamo spinti contro la nostra volontà. In entrambi i casi, il corpo porta i segni della lotta.

Scherma, danza, boxe: che ruolo hanno disciplina e rituali fisici nella società di oggi?
Vedo lo sport come rituale, e il rituale come sopravvivenza. Disciplina, ripetizione, resistenza: sono più che pratiche fisiche, sono architetture psicologiche. Ci danno un senso di ordine in un mondo caotico. Anche dipingere è un rituale. Tornare ogni giorno alla tela, anche attraverso la stanchezza o il dubbio, è una forma di resistenza.

Gli sport che ritrae hanno una forte dimensione performativa: un altro campo in cui si gioca il parallelismo tra le figure della sua mostra e quella del pittore.
Assolutamente. La pittura, come lo sport, ha una dimensione performativa. Quando affronto una tela bianca, è come entrare in un’arena. I miei gesti sono fisici, la posta in gioco è reale. Dipingo con tutto il corpo — spingendo, trascinando, stratificando, graffiando. La tela registra quello sforzo, quell’urgenza. Per me dipingere è sempre stato questione di incarnazione: dimostrare che siamo qui, vivi, che attraversiamo il tempo. La mia pratica si fonda su questo principio. Ma a differenza di un pugile o di un danzatore, il mio pubblico non vede la performance in tempo reale: la incontra dopo, attraverso ciò che rimane.

Ludovic Nkoth Ovation of a mirror Oil on canvas / Olio su tela 152.4 × 122 cm / 60 × 48 inches Ex. Unique

Ludovic Nkoth The American Dream, 2025 Oil on canvas / Olio su tela 172.7 × 233.6 cm / 68 × 92 inches Ex. Unique

Ludovic Nkoth Quiet Combat, 2025 Oil on canvas / Olio su tela 183 × 91.4 cm / 72 × 36 inches Ex. Unique

Giorgia Aprosio, 14 settembre 2025 | © Riproduzione riservata

«Il mio segno porta con sé urgenza e tenerezza». Dialogo con Ludovic Nkoth | Giorgia Aprosio

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