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Francesca Orsi
Leggi i suoi articoliQuello che risuona nel lavoro di Viviane Sassen (Amsterdam, 1972) ed è anche l’elemento che la rende una delle figure più importanti del panorama visivo contemporaneo, è l’estrema carica seduttiva delle sue immagini, risultato di un connubio straniante tra estetica, comunicazione visiva e riflessione sull’invisibile. I progetti dell’artista olandese, infatti, prendono consistenza attorno al rilevamento di uno spazio e di un tempo che gioca tra luci e ombre, tra ciò che appare e ciò che rimane celato o latente. Ed è la comunicazione di questo mondo intelligibile il centro del suo fare artistico, un mondo animato dai colori e dalle geometrie e dalle sinuosità plastiche, dalla tensione erotica e dalla connessione dell’antico con il nuovo.
Non fa eccezione la mostra «This Body Made of Stardust», che la Collezione Maramotti le dedica dal 27 aprile al 27 luglio, in occasione della XX edizione del festival Fotografia Europea a Reggio Emilia, a cura della stessa autrice. Un’indagine visiva sul concetto di «memento mori», che tanto interessa la natura fotografica, composta da più di 50 scatti, alcuni dei quali site specific per lo spazio della Collezione Maramotti, e un’installazione video. Il corpus delle opere in mostra abbraccia un periodo di produzione di un ventennio, dal 2005 al 2025, durante il quale Sassen ha evoluto il suo linguaggio, plasmando nuovi modi di intendere la sua visione. Una visione non solo tradizionalmente fotografica, ma organica, viva, contaminata, che, nello specifico della mostra, astrae concetti quali il corpo umano, i paesaggi, ma anche la terra e la polvere, rivelandoli come materia in trasformazione.
Lungo il percorso si avverte l’influenza dello sperimentalismo surrealista, l’oniricità del Realismo magico, ma anche la tradizione della fotografia documentaristica, l’energia dei colori e dell’equilibrio estetico della fotografia di moda. Tra tutte queste accezioni espressive, la rappresentazione della mortalità è al centro dell’impianto corale dell’intero lavoro in mostra, esposto non in maniera cronologica, ma attraverso accostamenti «warburghiani», in cui temi e forme ricollegano il tutto in un unico organo visivo palpitante. Il nuovo è in relazione al preesistente, ispirazioni artistiche risalenti ai movimenti dell’avanguardia sono in relazione a estetiche contemporanee, la frammentazione è in relazione al video, e, inoltre, parte delle opere di Sassen dialogano anche con alcune sculture della stessa Collezione Maramotti con cui l’artista ha instaurato un profondo senso di reciprocità.
Attraverso la mescolanza di tecniche, la stratificazione di contenuti e di epoche, il dialogo tra l’evidenza e la suggestione, la mostra mette in scena la camaleontica arte dell’interpretare un concetto, così esistenziale ma anche così tangibile, come la mortalità delle cose. Le immagini di Sassen sono forti della performatività dell’azione di cui sono testimonianza, un’azione enigmatica che fa pensare alla morte, ma che ne è semplicemente un inscenamento. Esempi di questo valore iconografico sono «Belladonna», che richiama la «Pietà» michelangiolesca, o «Three Kings (revisited)», che porta alla mente le tragedie degli immigrati morti in mare. Ma quello che vuole rappresentare Sassen è anche la forza della bellezza, l’estetica sconvolgente della vita; così in «X», la figura di un uomo, mostrata in negativo, si lancia libera in quello che parrebbe il mare. D’altronde la progettualità di Sassen è sempre stata onnivora, indagando il desiderio, la vita, la morte, l’emotività umana, secondo una stessa intensità di sguardo e di pensiero, nonché di tecnica. Nelle sue immagini accade sempre qualcosa di conturbante, qualcosa che travalica la realtà, anche quando quelle immagini appartengono alla più classica tradizione documentaristica.

Viviane Sassen, «Ivy», 2010. © Viviane Sassen. Courtesy of the artist e Stevenson (Cape Town, Johannesburg, Amsterdam)

Viviane Sassen, «True Love», 2019. © Viviane Sassen. Courtesy of the artist e Stevenson (Cape Town, Johannesburg, Amsterdam)