Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine
Rica Cerbarano e Chiara Massimello
Leggi i suoi articoliNel video documentario che accompagna la mostra «Guido Guidi. Col Tempo 1956-2024», in corso al MaXXI fino al 27 aprile, il fotografo ammonisce un gruppo di giovani studenti descrivendo i tratti che contraddistinguono un artista: deve essere «assente», non deve «inculcare le proprie idee nel lavoro», deve «essere nel mondo». Nonostante l’approccio di Guidi non si possa considerare propriamente documentario, con il 2024 alle spalle ci domandiamo: i fotografi, oggi, sono «nel mondo», vivono il presente? Qual è il loro rapporto con la realtà? Se la natura della fotografia è raccontare la contemporaneità come poche altre arti sanno fare, oggi questo suo ruolo di documentazione sembra essere mutato radicalmente, in bilico tra postverità, algoritmi e Intelligenza Artificiale. Tuttavia, in un mondo politicamente complesso e tormentato, dove la guerra e gli estremismi incalzano in Occidente e il Sud globale continua a essere dilaniato da inaccettabili sofferenze, rimane forte l’esigenza di riflettere sul presente, su ciò che stiamo vivendo e in cui siamo inevitabilmente, profondamente coinvolti.
«Devi essere nel mondo» è un imperativo più che mai attuale. La fotografia potrebbe (e dovrebbe) giocare un ruolo fondamentale nella comprensione della sua epoca e lo dimostrano alcune esposizioni dell’anno appena passato, dove artiste e artisti hanno usato l’immagine come strumento di indagine con un intento analitico e documentario, cercando una prospettiva storica e interconnessa. Così come Nan Goldin, nella mostra «This Will Not End Well» (partita dal Moderna Museet di Stoccolma nel 2023, e prevista in autunno a Milano, all’Hangar Bicocca), ci regala, con poesia e crudezza, una meravigliosa panoramica su un’epoca, un pensiero e un modo di vivere, sarebbe bello che nel 2025 si riscoprisse una riflessione consapevole sulla dimensione sociale e politica della fotografia, in Italia soprattutto.
I protagonisti delle «grandi mostre», quelle che creano le file fuori dai musei e di cui si celebrano i numeri a evento concluso, sono per lo più personaggi del passato. Anche tra i giovani, dai quali ci aspetteremmo senso critico e spirito di denuncia, la situazione non migliora troppo. Le nuove generazioni tendono a rifugiarsi troppo spesso in quello che i francesi chiamano «nombrilisme» (guardarsi l’ombelico), una visione ristretta della vita troppo concentrata sull’autobiografia personale, un po’ narcisista e autoreferenziale. Si presentano troppo spesso al pubblico con progetti eccessivamente intimi e introspettivi, senza mai elevarsi a un livello di riflessione superiore e più consapevole. Va da sé che dopo qualche anno il loro lavoro rischia di diventare puramente estetico e ripetitivo.

Lorenzo Vitturi, «Selfportrait in Arin#1». © Lorenzo Vitturi
Forse l’insegnamento delle scuole di fotografia (quasi esclusivamente gestite da privati) si concentra troppo sul risultato formale e sulla confezione di «progetti» fatti per essere venduti bene più che frutto di un’urgenza intellettuale e artistica presente? Il sistema dei premi e delle open call non aiuta: nella maggior parte dei casi, i requisiti di partecipazione sono troppo stringenti (spesso anche solo anagrafici) o vincolati a un tema specifico, comprimendo così la complessità dei lavori fotografici, mentre le modalità di partecipazione costringono spesso a ridurre i progetti a una sequenza lineare di pochi scatti di impatto estetico, come in una gallery di Instagram, senza spazio per approcci narrativi più inusuali.
In troppa fotografia di oggi tutto è pronto per essere consumato. Cucinato bene, ma precotto. Non ci sono sbavature, non ci sono immagini «maleducate», per citare sempre Guidi. Impacchettate a dovere, le fotografie rischiano di soffocare. Dov’è finito il respiro dei fotografi? L’incertezza, l’imprevedibilità, la vulnerabilità? Dov’è finita l’esperienza? Ci possiamo rincuorare con Jacopo Benassi, Irene Fenara, Ilaria Turba, Lorenzo Vitturi e pochi altri, ma vorremmo di più. Occorre lasciare spazio a un’indagine più profonda e meno estetica, all’intuizione e alla non-linearità, piuttosto che ambire all’ennesimo progetto formalmente perfetto ma vuoto, qualcosa di cui non abbiamo realmente bisogno. Forse gli artisti dovrebbero disobbedire di più ai mercanti, ai curatori, ai critici, agli editori, ai direttori dei musei. Soprattutto in questo momento storico in cui è certamente più facile rintanarsi nella propria bolla sociale mentre fuori il mondo brucia.
L’augurio per questo 2025 è che la fotografia italiana rifletta sull’importanza del suo ruolo e prenda consapevolezza di sé stessa. Perché oltre alle (poche) mostre di grandi autori stranieri che raccontano la realtà dal loro punto di vista, come quelle di Mitch Epstein per gli Usa e Shirin Neshat per l’Iran, sarebbe bello che il pubblico potesse visitare esposizioni che raccontano l’Italia così com’è, non tanto le sue bellezze, ma le sue criticità: la povertà delle periferie, la crisi dell’industria, la precarietà dei giovani, l’overtourism che sta spogliando le città della loro identità. Ci vorrebbe qualcuno che raccontasse la rabbia. Dov’è finita l’energia creativa della rabbia?
Altri articoli dell'autore
Una panoramica degli appuntamenti più importanti del settore, a livello nazionale e internazionale, per l’anno appena cominciato
Troppo spesso la fotografia non crede abbastanza nel suo ruolo, spendendosi in «cose» facili, estetiche e «carine» che sminuiscono la potenza e quella capacità di espansione illimitata propria del mezzo fotografico. E Instagram e i social non aiutano a cercare la profondità di pensiero