Giulio Volpe
Leggi i suoi articoliNell’esercizio della mia professione mi è capitato di assistere a scontri frontali non solo tra componenti di uno stesso Archivio, Comitato o Fondazione («enti certificatori», di varia origine e composizione, i cui «responsi» sono tendenzialmente ritenuti autorevoli), ma anche tra le opinioni espresse dall’ente certificatore e le conclusioni, spesso di matrice rigorosamente scientifica, raggiunte da studi di diagnostica applicata all’arte o da grafologi esperti. Né sono mancate battaglie interne, tra enti certificatori afferenti all’opera di uno stesso artista. Insomma: una babele.
La perizia d’arte è un’analisi dell’opera compiuta da un esperto, più o meno riconosciuto, al fine di pervenire, con il miglior grado di approssimazione possibile, alla designazione di epoca, paternità e valore venale. Si distingua poi tra autenticazione (espressione di un parere tecnico circa la paternità) e accreditamento (attestazione di un parere tecnico o di altre circostanze esterne che possono indurre a una attribuzione di paternità). La perizia che contempli anche la stima di un bene può definirsi estimativa, a differenza della valutazione che mira a stabilire autenticità e paternità del dipinto, propriamente detta expertise. L’expertise, che non ammette per legge posizioni attributive monopolistiche, le quali purtroppo si sono invece imposte nella prassi in modo e in misura aberranti, è una libera manifestazione del pensiero (espressione di una opinione) costituzionalmente tutelata (art. 21 Cost.).
Il «conoscitore», soprattutto nel caso dell’arte antica, si vale del proprio occhio per assegnare l’opera a un determinato autore, ma si ritiene oggi altresì molto rilevante l’indagine scientifica, con perizia grafologica sulla firma e vari esami diagnostici, ad esempio sui supporti e sui pigmenti. Infine, assai utile può rivelarsi la ricerca d’archivio e l’indagine a ritroso sulla «storia esterna dell’opera». Sono tutte procedure d’indagine necessarie tanto agli operatori di mercato quanto ai collezionisti e ai musei.
Passiamo ora all’art. 64 del Codice dei beni culturali (d.lgs. n. 42/2004), a norma del quale «chiunque esercita l’attività di vendita al pubblico, di esposizione a fini di commercio o di intermediazione finalizzata alla vendita di opere di pittura, di scultura, di grafica ovvero di oggetti di antichità, o di interesse storico od archeologico […] ha l’obbligo di consegnare all’acquirente la documentazione attestante la autenticità o, almeno, la probabile attribuzione e la provenienza delle opere medesime; ovvero, in mancanza, di rilasciare […] una dichiarazione recante tutte le informazioni disponibili sull’autenticità o la probabile attribuzione e la provenienza. Tale dichiarazione, ove possibile in relazione alla natura dell’opera e dell’oggetto, è apposta su copia fotografica degli stessi».
Il vero problema è individuare il soggetto più indicato a esprimere una valutazione plausibile. Essa espone infatti a un duplice rischio. Il primo è di indispettire il proprietario dell’opera che da un esito al di sotto delle attese potrebbe vedere svanire una sedimentata convinzione circa l’autenticità o un presunto valore del bene in questione, fino a determinarsi a un’azione legale contro la pronuncia sfavorevole. Il secondo rischio è di indispettire invece chi avesse dubbi sull’autenticità, nel caso opposto di una pronuncia favorevole, fino al punto di suscitare una reazione (eventualmente) avversa di storici dell’arte universalmente accreditati come esperti di quell’artista, fino al punto di vedersi accusare d’aver prodotto una «perizia truffaldina» (come amava definirla Federico Zeri).
A monte vi è, come non bastasse, il problema che non esiste un albo degli storici dell’arte su cui fare affidamento e che non spetta, come molti pensano, ai discendenti dell’artista defunto, né a enti certificatori (Archivi, Comitati, Fondazioni ecc.) l’ultima parola. E per completare lo scenario, spesso neppure i periti accreditati presso i tribunali riescono a estinguere completamente il dubbio. Giova sempre ripetere che nell’ambito del riconoscimento di paternità o del diritto di archiviazione dell’opera d’arte è assente un riferimento legislativo. Venendo alla giurisprudenza, l’expertise è, secondo recente sentenza, «un documento contenente un parere autorevole di un esperto in merito all’autenticità e alla attribuzione di un’opera e tale documento può essere rilasciato da chiunque ritenuto competente sul mercato, non trattandosi di un diritto riservato in esclusiva agli eredi dell’artista, i quali non possono, quindi, attribuire o negare a terzi, ad esempio critici d’arte o studiosi, la facoltà di rilasciare expertise in merito all’autenticità dell’opera del loro congiunto».
Come buona parte della dottrina giuridica, ritengo che il giudizio espresso tramite «archiviazione» o rifiuto di essa, ad esempio da parte di una Fondazione, di un Comitato o di un Archivio intitolati a grandi autori del Novecento, si risolva semplicemente in una «opinione qualificata», come tale soggettiva, inidonea ad assurgere a valore oggettivo e «tombale», bensì da porsi sempre in raffronto con altre opinioni disponibili, eventualmente più qualificate e spesso più motivate. Lo stesso vale per le attribuzioni delle opere d’arte antica, rilasciate da questo o quello studioso, per quanto valente e riconosciuto. Ciò che non si vuole ammettere è la seguente presa di coscienza: al di fuori dei casi di ampia convergenza critica o di prova documentaria incontestabile, non si può pretendere di tenere in mano una certezza. E se manca la possibilità giuridica del monopolio attributivo, è sempre mancata anche la possibilità giuridica di costringere altri a sposare la propria opinione.
Tuttavia, la Corte d’Appello di Milano in tempi recenti ha segnato una svolta, stabilendo che al privato spetti un’azione di accertamento giudiziale in merito alla paternità dell’opera, a fronte di una mancata autenticazione da parte della Fondazione (in quel caso) coinvolta: «L’autenticità dell’opera d’arte fornisce al bene una qualificazione ontologicamente diversa, con inevitabili riflessi sul relativo diritto di proprietà. L’incertezza scaturita dal rifiuto della Fondazione […] di autenticare l’opera d’arte ha reso, quindi, concreto l’interesse […] a promuovere l’azione di accertamento» (Corte App. Milano, n. 2262/2022). Si sarebbe perfino affermato in capo agli enti certificatori un principio di coercibilità dell’inserimento dell’opera accertata giudizialmente come autentica nel catalogo generale di un artista.
Si proceda dunque, come indica la strada aperta dai giudici milanesi, a estinguere una volta per tutte il «monopolio attributivo di fatto» assegnato a tali «enti certificatori», spesso bislacchi e per nulla immuni da procedimenti giudiziari, e a liberare i privati proprietari da attribuzioni apodittiche e spesso carenti di motivazione, ma ancora capaci di incidere negativamente sul patrimonio di intere famiglie, nonché sulla necessaria trasparenza del mercato (mi è capitato di attendere cinque ore su un divano della hall di un albergo l’esame dell’opera di un cliente da parte di un ben noto «Comitato», di cui nessuno però poteva verificare la composizione e con cui nessuno poteva interloquire, salvo poi vedersi recapitare un responso negativo totalmente privo di motivazione, a fronte di un corposo dossier ricco di indizi a favore dell’autenticità). Si restituisca dunque questo mondo alla sua fisiologica aleatorietà, fatti salvi il rispetto delle leggi, l’attenzione alle indagini scientifiche, il valore dei documenti, i «dati automatici di scrittura» morelliani e il talentuoso occhio dei conoscitori. Ai fanatici della sicurezza attributiva, peraltro, consegniamo una convinzione di Voltaire: «Il dubbio non è piacevole, ma la certezza è ridicola».
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