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Enrico David, «Dinnisblumen», 1999, Anversa, Raf Simons Collection

© Enrico David. Courtesy of Michael Werner Gallery

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Enrico David, «Dinnisblumen», 1999, Anversa, Raf Simons Collection

© Enrico David. Courtesy of Michael Werner Gallery

Il reportage diaristico di Enrico David di quarant’anni passati fuori dall’Italia

Nella Manica Lunga del Castello di Rivoli dipinti, disegni, opere tessili, sculture e installazioni ambientali realizzate dal 1995 per «orchestrare un’immagine di realtà separata, parallela»

Dal 30 ottobre al 22 marzo 2026, il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea presenta una personale dell’artista Enrico David (Ancona, 1966) dal titolo «Domani torno». Curata da Marianna Vecellio in un allestimento appositamente pensato per la Manica Lunga, la mostra propone dipinti, disegni, opere tessili, sculture e installazioni ambientali realizzate dall’artista negli ultimi trent’anni, insieme a nuove opere concepite per l’occasione. Abbiamo incontrato l’artista per discutere della sua pratica, del suo rapporto con il sapere artigiano e della sua particolare visione della storia, e su come ha approcciato il monumentale e caratteristico spazio della Manica Lunga.

La sua personale si intitola «Domani torno». È una promessa, un desiderio o un’intenzione? A che cosa fa riferimento? 
Non si riferisce a niente in particolare. Le mostre vanno chiamate in qualche modo, c’è sempre l’esigenza di dover dare dei titoli, se possibile anche succinti. Mi piaceva la melodrammaticità di «domani torno», che è una frase che io, vivendo all’estero da quarant’anni, ho detto a diverse persone in moltissime occasioni. Ha un qualcosa di neorealista, potrebbe quasi essere il titolo di un film. È una frase che nel mio immaginario ho sintetizzato come elemento di italianità, l’idea della persona che va a lavorare fuori e che torna al paese per Natale. Questa frase, un po’ un cliché, se vogliamo, si riferisce non a un mio ritorno fisico, ma a una sorta di reportage diaristico di questi quarant’anni passati fuori dall’Italia. Mi piaceva anche l’uso della coniugazione verbale, non «tornerò» ma «torno», un uso improprio del linguaggio, ma che mi appartiene, essendo ormai bilingue.  

Lei infatti vive a Londra dal 1986. Perché proprio Londra?
Per vari motivi. È stato il posto in cui, avendo studiato inglese alle superiori, mi sentivo probabilmente più facilitato, ed ero anche affascinato dalla scena musicale di quel periodo, che quanto meno mi aveva portato a studiare la lingua. Poi sono arrivato a Londra e ho scoperto che l’inglese che pensavo di parlare era assolutamente inefficiente.

Nel suo lavoro si percepisce una forte impronta artigianale, nel senso del recuperare, del mettere insieme il fare di luoghi, epoche e contesti differenti. Quando è arrivato a Londra sentiva già di avere questo bagaglio per la sua pratica o lo ha sviluppato strada facendo? 
Inconsciamente quel bagaglio lo avevo con me fin dall’inizio, poi col tempo ho in qualche modo sviluppato un metodo di utilizzo di questa banca dati immaginaria che avevo in testa, fatta di cose a cui ero stato esposto non nella mia formazione artistica, ma in quella umana. Vengo da una famiglia di artigiani, per cui diciamo che inconsciamente mi sono trovato a rifarmi alle cose che erano a me più familiari, e col tempo ho imparato a capire come collegare elementi da diverse tradizioni e utilizzarli, anche impropriamente, per poter scoprire che cosa avevo da dire, per sviluppare un mio linguaggio, in una sorta di opportunismo a fini soggettivi. Non ho mai avuto una lealtà di metodo verso alcun tipo di pratica, e sento di non averla ancora oggi. 

Enrico David, «Le Bave (Solar Anus)», 2023. Courtesy the artist and Michael Werner Gallery

Infatti le sue personali, più che mostre con opere di un unico artista, sembrano collettive ben curate. È evidente la varietà nell’uso di tecniche e materiali, ma quello che dà solidità e coerenza al rapporto tra i lavori è un pensiero discreto in sottofondo, come un medesimo humus che permette la crescita di forme diverse. In che maniera affronta la costruzione di una mostra e di una nuova serie di opere?
Diversi fattori determinano lo sviluppo di un progetto. C’è la natura dello spazio in cui verrà esposto, la natura del momento che sto vivendo, ma in un certo senso la cosa principale che ne influenza la definizione è il progetto precedente. In qualche modo le cose si susseguono in una sorta di traiettoria. È questa idea dell’essere informato dalla pratica stessa e da quello che ho lasciato di non esplorato in una fase precedente del lavoro. Il mio approccio al linguaggio artistico ha a che fare con la costruzione immaginaria di un mondo che funzioni come alternativa a quello in cui viviamo. È come se il mio progetto artistico fosse quello di coadiuvare i lavori con cose che li rendano meglio integrati, e ha a che fare con la fantasia di creare un universo in cui il lavoro stesso possa essere meglio equipaggiato per esistere, anche come alternativa allo sfacelo umano che stiamo creando nella nostra realtà. È come una sorta di specchio che riflette quanto male funzionano le nostre cose. Nel lavoro cerco di orchestrare un’immagine di realtà separata, parallela. C’è chi lo fa con la pittura, ed è sufficiente che lo faccia nella costruzione immaginaria di realtà nello spazio pittorico. Attraverso il mio percorso, attraverso la mia crescita, i miei linguaggi, ho cercato sempre di costruirlo in una maniera olistica in studio. L’idea di come vivere con la creatività, di come vivere con il nostro operato e di come il nostro operato possa vivere con noi, cambiando anche il nostro modo di stare al mondo. Come una scultura possa cambiarci, come una scultura possa essere aiutata da un arazzo, o come un arazzo possa creare un’illusione di ambiente per un altro oggetto.

Rispetto a questo, i suoi lavori, oltre ad agire sullo spazio, sembrano agire anche sul tempo. Non si riesce bene a capire quale temporalità esprimano. È un sentire che lei condivide? Qual è, a tale riguardo, il suo rapporto con l’arte del passato? 
Sì, lo sento e non è una questione della quale sono venuto a capo con chiarezza. Sicuramente utilizzo il mio sguardo verso la storia come uno strumento per capire in che modo la storia possa lavorare per me. È lo stesso principio di cui parlavamo prima, l’opportunismo nei confronti delle informazioni a cui sono stato soggetto, questa idea di come possa far lavorare la storia per me, piuttosto che essere semplicemente un partecipante passivo. E la storia, utilizzata in questo modo, anche in maniera involontaria, inconsapevole, unita ai miei fini soggettivi, crea questa atemporalità di cui parla. Questa mia spinta, che cerco di mantenere più onesta possibile, determina un cambiamento nell’asse del tempo. È un gioco di collaborazioni tra la storia per come la conosciamo e la storia per come può essere, se presa in mano da un individuo. Che cosa può fare un individuo con la storia? Questo sta a noi deciderlo. Poi, chi fa arte può dedicarci la vita, come sto facendo io, però diciamo che è una possibilità a disposizione di tutti. Ogni processo creativo deve venire a patti con questa temporalità, e con questo cambiamento della temporalità. La storia è viva e vive attraverso il nostro impegno nei confronti del presente. Mi sembra il modo più onesto per rispondere a questa domanda. 

Prima accennava all’influenza che hanno gli spazi sulle sue mostre. A Rivoli si trova a confronto con lo spazio della Manica Lunga, che immagino abbastanza difficoltoso da approcciare. Come l’ha affrontato e come l’ha ispirata?
Siamo dovuti arrivare a patti con molte cose perché, come dice lei, è uno spazio unico, molto teatrale, ma in qualche modo, per i fini del mio lavoro, è uno spazio ideale, perché è molto isterico, molto illogico. E anche ostile. Non è uno spazio piacevole, perché è troppo grande, le sue proporzioni sono troppo esagerate, il rapporto lunghezza-larghezza è improprio. E tutto questo ha creato una convulsione tra il lavoro e lo spazio, un incitamento reciproco al portare all’eccesso il nostro dialogo, incoraggiandoci a vicenda. Lo spazio mi suggeriva di mettere da parte la ragione, e io rispondevo fornendo la mia particolare versione di come metterla da parte. Ci siamo confrontati sull’irragionevolezza, e alla fine ci siamo riconosciuti nella nostra personale forma di irragionevolezza. La mostra sarà una sorta di passeggiata, perché lo spazio ti permette di farlo, ti permette di andare e poi tornare. Sarà una promenade circolare attraverso circa trent’anni di lavori, prodotti dal 1995 ad oggi. Quello che la rende particolare è che avviene in uno spazio senza ambienti, e questa mancanza ha permesso di inserire lavori che, in altre circostanze, non potrebbero essere allestiti in relazione ad altri. I particolari dialoghi che ho instaurato tra diverse epoche e linguaggi sono stati possibili grazie alla follia di quello spazio. Ci siamo celebrati a vicenda. Partendo da una posizione di ostilità ci siamo ritrovati a onorarci. O almeno, così penso, o così spero. 

Enrico David, «Assumption of we», 2014-25. © Enrico David. Photo © White Cube (Theo Christelis)

Matteo Mottin, 27 ottobre 2025 | © Riproduzione riservata

Il reportage diaristico di Enrico David di quarant’anni passati fuori dall’Italia | Matteo Mottin

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