Vincenzo de Bellis
Leggi i suoi articoliDi ritorno da Los Angeles dopo l’ultima edizione di Frieze L.A. (17-20 febbraio), mi sono soffermato a riflettere su quello che tutti in quella settimana definivano il nuovo fenomeno in corso, ovvero l’espansione delle gallerie a Los Angeles, specie di quelle con sede a New York. L’«appeal bicoastal», infatti, ha sedotto sia le megagallerie sia realtà relativamente più piccole.
All’inizio di febbraio Marc Glimcher, Ceo e presidente di Pace Gallery, insieme a Bill Griffin e Maggie Kayne, fondatori e partner di Kayne Griffin, hanno annunciato l’unione delle loro gallerie per creare la nuova sede di Los Angeles per Pace, sotto la guida proprio di Griffin e Kayne. Qualche giorno dopo, Lisson Gallery ha fatto il suo debutto a Los Angeles proprio durante la settimana di Frieze con un nuovo spazio a Hollywood, collocato nell’ex edificio di «The Zone», una discoteca gay chiusa nel 2019. Non lontano, la piccola galleria The Hole, con sede a Tribeca e Lower East Side, ha aperto il suo terzo spazio permanente su North La Brea Avenue qualche mese fa.
Sempre durante la settimana di Frieze, a conferma di quanto si diceva da tempo, David Zwirner ha dichiarato che avrebbe aggiunto uno spazio di 1.500 metri quadrati situato a East Hollywood in un edificio di tre piani progettato da Selldorf Architects. Come parte del progetto, Zwirner rinnoverà due strutture che in precedenza fungevano da negozi di oggetti di scena di Hollywood da utilizzare «principalmente per mostre e programmazione», nonché uno spazio all’aperto e un giardino di sculture. Gli spazi dovrebbero aprire nel gennaio 2023. Infine, io stesso ho raccolto un’indiscrezione, non molto segreta essendo giunta già alle mie orecchie, che anche Marian Goodman stia per aprire un avamposto in città. Tutte queste si aggiungono ai veterani Gagosian, Hauser and Wirth e Matthew Marks, che sono lì da diversi anni. Perché tutto ciò e, soprattutto, si tratta di una «vera» notizia o novità?
Negli ultimi anni il numero degli artisti per ogni galleria è aumentato di molto proprio per gli effetti della necessità di diversificazione dei roster, quindi le gallerie hanno bisogno di spazi aggiuntivi per dare continuità espositiva agli artisti. Se questo è vero, ed è certamente cosi, perché Los Angeles? Certamente gli spazi sono ancora, per poco, meno cari che a New York, ma non solo. È una questione di crescita.
A Los Angeles, la comunità artistica 50 anni fa era molto isolata dalla grandissima industria che è ovviamente Hollywood. Ora quando vai a un’inaugurazione ci sono molte più persone e c’è un vero interesse per l’industria delle arti visive. Anche se New York resta l’epicentro del mercato dell’arte, con la più grande popolazione di milionari e miliardari, in tutto il mondo il paesaggio sta cambiando rapidamente. Sia pur sempre pochi numericamente, i collezionisti con base a Los Angeles si sono già quintuplicati negli ultimi anni.
In aggiunta, la crescita esponenziale della Silicon Valley, unita al mercato asiatico sempre in movimento, rende la presenza sulla costa del Pacifico strategica per stabilire una vicinanza geografica più stretta di quanto possa fare una galleria di New York. La verità però è che l’apparentemente «zeitgeisty shift» verso ovest non è una novità nel mondo dell’arte. La storia della scena artistica di Los Angeles è fatta di picchi e di cadute, con nuovi attori che entrano ed escono a cicli. Ad esempio, Venus Over Los Angeles, la seconda sede della galleria dell’Upper East Side Venus Over Manhattan, è stata inaugurata nel 2015 e chiusa meno di tre anni dopo, nel gennaio 2018.
Il famigerato Perry Rubenstein aveva trasferito la sua omonima galleria di Chelsea a Los Angeles nel 2012, ma fu costretto a chiudere i battenti nel 2014, dopo diverse cause legali e una dichiarazione di fallimento. Garis & Hahn si erano trasferiti da New York, dove avevano aperto nel 2013, a Los Angeles nel 2017 prima di chiudere due anni dopo, mentre i due partner hanno continuato a perseguire le proprie iniziative. La stessa ex «rising star» dell’arte americana Michelle Maccarone dapprima ha mantenuto due spazi tra New York e Los Angeles, per poi trasferirsi in California e infine, ahimè, sparire dal panorama. Va detto che in questi ultimi anni c’è una sorta di piccolo fenomeno inverso, così molte gallerie cresciute in California scelgono anche di aprire a New York (Ghebaly, Nicodim e, molto significativamente, David Kordansky).
Questo è avvenuto, in una certa misura, grazie anche ai prezzi degli immobili più contenuti per la pandemia, ma forse non solo. Coltivare un pubblico locale in una città così complessa per motivi di traffico e gigantismo richiede un approccio più organico rispetto al semplice investimento immobiliare in un quartiere con molte altre gallerie, come Chelsea o Tribeca, dove hai un traffico di visitatori garantito.
Le gallerie con base a Los Angeles hanno un enorme problema, dare alle persone un motivo per salire in macchina, sfidando magari due ore di coda, per venire a trovarti. Proprio per questo devono presentare lavori più «esperienziali» e coinvolgenti, diciamo un po’ hollywoodiani. Chi veramente potrà permetterselo? Vedremo, noi intanto le mostre ce le godiamo e, se non ci piacciono, le critichiamo, non troppo però, mi raccomando.
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