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Joana Vasconcelos, «Wash and Go», 1998

© 2025 ProLitteris, Zurich | © DMF Daniel Malhão Fotografia, Lisboa. Courtesy Atelier Joana Vasconcelos

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Joana Vasconcelos, «Wash and Go», 1998

© 2025 ProLitteris, Zurich | © DMF Daniel Malhão Fotografia, Lisboa. Courtesy Atelier Joana Vasconcelos

Il teatro della memoria di Joana Vasconcelos, che trasfigura il banale

Nel Museo Comunale d’Arte Moderna oltre 30 lavori dell’artista portoghese: «Ci siamo concentrati su opere politiche e problematiche, spesso dure nel loro messaggio, piuttosto che su quelle spettacolari»

Sono passati vent’anni dalla 51ma Biennale di Venezia, dove l’artista portoghese Joana Vasconcelos s’imponeva all’attenzione del mondo dell’arte con il suo gigantesco «The Bride» (la sposa), un enorme lampadario in stile Impero (sei metri di altezza, tre di diametro) fatto di 14mila assorbenti interni femminili. Un’opera discussa, anche contestata (nella Reggia di Versailles dove lei, prima donna in assoluto, nel 2012 ebbe una grande personale, «The Bride» fu respinta) che conteneva in sé i semi di tutto il suo lavoro: la riflessione, pervasiva nella sua opera, sul femminile; la manualità del cucito, del ricamo, del paziente assemblaggio di elementi, tradizionalmente femminile anch’essa; la voluta ambiguità del messaggio; la decontestualizzazione degli oggetti e, non ultimo, l’ironia, spesso malinconica però, dietro cui l’artista nasconde temi di grande attualità e intensità

Da allora Joana Vasconcelos (1971) si è imposta fra le voci autorevoli del nostro tempo, ma lei lavorava già dagli anni Novanta ed è da quelle prime opere che prende il via la grande mostra «Joana Vasconcelos. Flowers of My Desire» (catalogo Allemandi) presentata dal 15 giugno al 12 ottobre dal Museo Comunale d’Arte Moderna di Ascona, sulle sponde elvetiche del Lago Maggiore. Curata da Mara Folini, direttrice del museo, e da Alberto Fiz, la mostra esibisce oltre 30 opere tra installazioni, lavori a parete, dipinti, disegni, video e libri, scelti dai curatori per comporre un percorso antologico strettamente connesso agli spazi e alla storia di questo museo, che è dedicato a Marianne von Werefkin («la Baronessa»), antesignana delle donne artiste della modernità sin dai primi anni del secolo scorso quando, con il compagno Alexej von Jawlensky e la formidabile coppia di amici formata da Vasilij Kandinskij e Gabriele Münter, impresse con loro una svolta radicale all’arte del tempo.

Dopo l’installazione «Wash and Go», sorta di autolavaggio per umani, e il gigantesco omaggio alla «Baronessa» (2023, dieci monumentali metri di scultura tessile disposti verticalmente in un’opera che allude alla Valchiria, metafora della potenza femminile), il percorso si sviluppa sui due piani del museo accogliendo, al primo piano, i visitatori con lo spettacolare «Red Independent Heart» (2013), un enorme cuore che gira su sé stesso in un’allusione ai cicli della vita, ispirato ai «cuori di Viana», popolari gioielli portoghesi in filigrana, accompagnato qui dalle struggenti note del «fado». Quel macroscopico «gioiello» non è composto però (e lo si capisce solo avvicinandosi) di materiali preziosi ma è formato da 4mila banalissime forchette di plastica rossa.

Spettacolari e «barocche», programmaticamente eccessive e ridondanti, le opere di Vasconcelos corrono il rischio di essere esibite solo per la loro indubbia potenza estetica, «e questo è esattamente ciò che, con Mara Folini, abbiamo voluto evitare nel costruire la mostra, spiega Alberto Fiz. Abbiamo infatti cercato di sviluppare un percorso che tenga conto dei vari aspetti della sua poetica, concentrandoci soprattutto su opere “politiche” e problematiche, spesso dure nel loro messaggio, piuttosto che lavori spettacolari: l’opera che dà il titolo all’esposizione, “Flowers of My Desire” (1996-2010), è formata internamente da morbidi piumini da spolvero composti in una forma organica, accogliente, mentre all’esterno sporgono minacciosi spuntoni metallici. In “Fashion Victims” (2018) due bambole nude dai volti infantili vengono completamente racchiuse in un bozzolo di filo, lasciando però scoperti seno e pube, e in “Big Booby” (2018), un grande, morbido seno eseguito a uncinetto e imbottito, è ancorato alla parete da ganci da macelleria, con un evidente riferimento al tema della violenza sulla donna».

In un’opera come quella di Joana Vasconcelos, che ama giocare sulla trasfigurazione e sulla riattivazione del banale (esemplari i soffioni da doccia addobbati con lavori all’uncinetto e materiali luccicanti della serie «A Barroca», 2014), un posto importante è occupato da «Stupid Furniture» (2021-22), «vecchi mobili da soffitta trasformati in sculture a tratti morbide e seducenti grazie all’uso di tessuti, continua Fiz, fino a perdere la loro funzione originaria, ma trovandone una nuova: tutto il suo lavoro, del resto, si può interpretare come una trasfigurazione del banale e, al tempo stesso, un vero teatro della memoria, e per questo abbiamo dato spazio anche ai suoi grandi libri di appunti, i “Cahiers de ma vie”, diari visivi che vanno alla radice del suo processo creativo. Volevamo infatti che fosse evidente la forza prorompente di ogni suo messaggio». 

Ada Masoero, 01 giugno 2025 | © Riproduzione riservata

Il teatro della memoria di Joana Vasconcelos, che trasfigura il banale | Ada Masoero

Il teatro della memoria di Joana Vasconcelos, che trasfigura il banale | Ada Masoero