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Rica Cerbarano
Leggi i suoi articoliL’opera di uno degli artisti più significativi della nostra epoca arriva in Italia con «Jeff Wall. Photographs», una mostra alle Gallerie d’Italia-Torino di Intesa Sanpaolo dal 9 ottobre al primo febbraio 2026, a cura di David Campany, scrittore, critico d’arte e direttore creativo dell’International Center of Photography di New York. Jeff Wall (Vancouver, Canada, 1946) è conosciuto a livello internazionale per le sue opere di grande formato dall’estetica cinematografica e la posa pittorica, frutto di una sapiente messa in scena che attinge al fascino sottile del quotidiano, elevandolo a visione onirica. L’esposizione raccoglie 27 opere, dalle fotografie più importanti della fine degli anni Settanta fino a quelle più recenti, raccontandone la realizzazione e rivelando come il suo lavoro non sia una «semplice» riflessione formale, ma una vera e propria indagine sociale e politica attraverso l’immagine. L’abbiamo intervistato.
Jeff Wall non ha certo bisogno di presentazioni, quindi vorrei chiederle: al di là delle definizioni abituali e un po’ abusate, come descriverebbe la sua pratica e il modo in cui si è evoluta nel tempo?
Mi piace pensarmi come un artista che fa immagini, non molto diverso da qualsiasi altro negli ultimi 500 anni. È così che mi sono avvicinato all’arte da bambino. Non mi considero però in alcun modo un artista «tradizionale» e non nutro un particolare rispetto per la «tradizione»; sono colpito e in una certa misura influenzato tanto dall’arte antica, diciamo Giotto, quanto da quella nuova, diciamo Pierre Huyghe.
L’impatto estetico delle sue immagini è sottile e misurato. Quali criteri usa per decidere se un’immagine funziona o meno? Esiste un confine estetico che cerca di non superare, o si tratta piuttosto di una questione narrativa?
Cerco di non sottovalutare né di esagerare, ma di trovare la nota giusta per ogni soggetto. Uso il termine «quasi documentario» per alcune mie immagini. Sono realizzate in risposta a cose che ho visto direttamente ma che non ho fotografato. Possono riguardare episodi quotidiani apparentemente banali, ma in ognuno di essi ho percepito una profondità o una ricchezza tali da meritare una seria attenzione. Queste immagini vengono quindi ricostruite dalla memoria dell’episodio originale nel modo più fedele possibile, ma secondo condizioni che mi permettono la massima libertà di rimodellare gli elementi che si prestano bene a essere trasformati. Finiscono così per assomigliare a quello che sarebbe stato uno scatto documentario di quella situazione, ma con qualità formali o compositive che rafforzano il senso dell’originale. Molte di queste immagini potrebbero essere definite «sobrie»: suggeriscono senza dichiarare. Ma ho realizzato anche altri tipi di immagini, non derivanti da cose viste, che nascono da fantasie personali o da molti altri stimoli. Alcune sono elaborate, manierate, persino grottesche, «esagerate». Quindi non posso dire di evitare di oltrepassare i confini in termini di approccio, tema, tecnica o stile.

Jeff Wall, «The Drain», 1989. Courtesy of the artist
È vero che l’idea di utilizzare la tecnica dei lightbox per le sue fotografie è nata dopo la sua prima visita al Prado? Ho letto che tornando a casa ha visto una pubblicità retroilluminata a una fermata dell’autobus e che il contrasto così netto tra arte e segnaletica commerciale ha fatto scattare in lei l’idea di quella che sarebbe diventata la sua cifra stilistica.
È andata più o meno così. Nel 1977 andai in Europa con la mia famiglia per una vacanza estiva. La visita al Prado faceva parte di quel viaggio. Era la mia prima volta lì, e avevo pensato a Velázquez per gran parte della mia vita. Parte della mia ricerca originaria riguardava i modi per realizzare fotografie alla scala reale che Velázquez aveva dimostrato in modo così perfetto, quindi andavo in Spagna non solo per vedere i suoi lavori ma con uno scopo preciso. Da lui ho ottenuto quello che mi aspettavo, nessuna sorpresa, a parte l’immenso piacere di vedere dal vivo «Las Meninas», «Le filatrici (La favola di Aracne)» e altri dipinti. Stavo cercando un approccio tecnico alla fotografia di grande formato e un’immagine pubblicitaria retroilluminata intravista lungo il viaggio di ritorno mi rimase impressa. Più tardi quell’anno mi fu mostrato quello che sembrava essere un materiale trasparente di grande qualità, e decisi di sperimentare.
Le sue immagini sono «immobili»: invitano a uno sguardo lento e riflessivo, in contrasto con la cultura visiva frenetica di oggi. Il tempo fotografico, solitamente legato all’istante, nel suo caso diventa dilatato. Pensa che i giovani di oggi riescano a comprendere questo approccio alla fotografia? O sono troppo stimolati per impegnarsi in una visione così «lenta»?
Non voglio generalizzare. Le persone seriamente attratte dall’arte, dalla letteratura, dalla musica, tendono a godere delle esperienze che queste offrono, e le preferiscono ad altro. Chi non lo è, non lo fa. La nostra cultura sta enfatizzando modalità di attenzione fluide e rapide, voltando le spalle a tutto il resto. Anche l’educazione sta andando in questa direzione. Queste tendenze sono scoraggianti, per usare un eufemismo. Ma la vita culturale non è monolitica e tirannica, almeno non ancora, e ci sono ancora molto spazio e molte opportunità per chi voglia percorrere strade diverse.
Qual è il suo rapporto con l’Italia? Penso soprattutto all’ispirazione neorealista che emerge in alcune delle sue opere.
Guardo l’arte italiana, i film italiani e leggo letteratura italiana da decenni, e ci sono innumerevoli esempi ed esperienze che mi hanno influenzato: Visconti, Elena Ferrante, Donatello, Tomasi di Lampedusa (siciliano!), de Chirico, Calzolari, Pistoletto, Quasimodo...
Oltre a essere un artista, lei è anche un importante pensatore e scrittore d’arte. Perché scrive? Ha mai pensato di intraprendere più pienamente quella strada, quella del critico o del teorico?
Non credo che i miei scritti siano poi così «importanti». Ho riflettuto criticamente sull’arte e sulla cultura per tutta la vita. Mi piace e questo alimenta il mio lavoro in infiniti modi. Ho scritto solo quando qualcuno che stimavo me lo chiedeva. E quando scrivo, posso essere preso quanto quando lavoro a un’immagine. Ho anche insegnato per molti anni, per vivere, e in quel caso dovevo scrivere e parlare molto. Non ho mai scritto nulla di mia iniziativa e sono sicuro che non lo farò mai.
Che cosa possiamo aspettarci dalla sua mostra alle Gallerie d’Italia? E com’è stato lavorare con David Campany, dopo tanti anni di scambio e collaborazione?
Con Campany ci conosciamo da molto tempo. È una delle persone più acute e competenti che lavorino oggi nella fotografia, quindi è stato un piacere realizzare questa mostra con lui. È la prima volta che facciamo qualcosa di questa portata. Non abbiamo cercato di creare nulla di insolito. Spero sia percepita come un insieme ben selezionato di diversi tipi di immagini, che dia al pubblico un’idea chiara della natura del mio lavoro e delle varie direzioni intraprese negli anni.

Jeff Wall, «Listener», 2015. Courtesy of the artist and White Cube