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Olga Gambari
Leggi i suoi articoliDavid Campany conosce Jeff Wall (Vancouver, Canada, 1946) dagli anni Novanta, anche se il suo lavoro, la sua fotografia, l’aveva incontrata già qualche anno prima. Da allora hanno spesso collaborato a conversazioni, libri (per esempio quello dedicato a un lavoro fondamentale di Wall, «Picture for women» del 1979) e mostre, come quella che vedrà Jeff Wall protagonista di una grande personale alle Gallerie d’Italia-Torino a ottobre 2025, di cui Campany, scrittore, critico d’arte e direttore creativo dell’International Center of Photography di New York, sarà il curatore. «Il titolo è semplicemente “Photographs”, perché la fotografia, l’immaginario che Wall crea, è una dimensione sospesa nello spazio e nel tempo, un istante colto e fissato che diventa luogo, situazione metafisica», racconta Campany. La mostra sarà un excursus attraverso venticinque opere, alcune in forma di dittici e trittici, dagli anni Ottanta all’anno scorso, anche se nel suo lavoro non sono importanti le date perché le sue opere è come se fossero senza età, sempre qui e ora per chi si trova loro di fronte.
Questo suo attraversare dimensioni, rendere la fotografia osmotica con la pittura, il teatro, la letteratura, sempre in bilico tra spontaneità e messa in scena, realtà e finzione, lo ha reso un autore di grande fascino, un vero mito, famosissimo per i suoi grandi, ieratici lightbox, la forma perfetta in cui far esprimere le sue immagini, con la luce che le rende ancora più immaginifiche e stranianti. Di fatto un nuovo modo di presentare la fotografia inventato alla metà degli anni ’70, stampata su grandi tele trasparenti montate su strutture retroilluminate. Ogni opera una narrazione costruita con accuratezza, piena di dettagli, a volte ispirata dalla strada, dalla casualità del quotidiano, altre meticolosamente realizzate in studio. Immagini perfette, di un realismo magico. Non più di duecento opere prodotte in tutta la sua carriera. Ai performer che le animano, spesso figure singole, o comunque isolate, colte in interni, o sedute, sdraiate per strada, Wall spiega il tema, il pensiero che vuol mettere in scena, senza che ciò implichi la richiesta di una rappresentazione didascalica, lasciando entrare anche la loro spontaneità nel lavoro. «Rimane in attesa del momento in cui si manifesta lo scatto perfetto, di cui anche lui è in cerca, aggiunge Campany. Anche se non porta dietro la macchina con sé, Wall è sempre attento a ciò che gli accade attorno, osserva le situazioni, le persone, gli ambienti, la luce, appunti che raccoglie per poi mescolarli nelle immagini che gli si iniziano a formare in testa, a cui lavora a lungo, come progetti spesso inconsapevoli».
Molti gli echi che risuonano nelle sue fotografie, le suggestioni. Per esempio Hopper, Hokusai e Vermeer, il romanzo Invisible man scritto da Ralph Waldo Ellison nel 1952, tra i testi fondativi della cultura americana, che racconta di un uomo che vive abusivamente in un seminterrato con stanze illuminate da centinaia di luci. Come non pensare ai lightbox di Wall? A Ellison è dedicata l’opera «After “Invisible Man” by Ralph Ellison, the Prologue» (1999-2000), che sarà presente alle Gallerie d’Italia-Torino, spazio ipogeo abituato a offrire agli artisti invitati una grande libertà allestitiva e illuminotecnica. «Photographs» sarà un percorso immersivo, con al centro un’installazione multimediale composta da proiezioni di dettagli tratti dalle opere in mostra, e poi lightbox, fotografie in bianco e nero e stampe a colori. Accoglie il pubblico un trittico di notevoli dimensioni e di particolare importanza, «I giardini/The Gardens» (2017), realizzato nei giardini della Villa Silvio Pellico a Moncalieri, appena fuori Torino. Nei «Giardini» per la prima volta Wall mette in dialogo le immagini tra loro («Appunto/Complaint», «Disappunto/Denial» e «Diffida/Expulsion»), delineando un’evoluzione temporale e narrativa tra il contesto naturale e i personaggi che lo vivono. Una mostra preziosa da vedere prendendosi del tempo.