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Joana Vasconcelos, «Caldi abbracci», 2022

© 2025, ProLitteris, Zurich; Photo © Atelier Joana Vasconcelos

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Joana Vasconcelos, «Caldi abbracci», 2022

© 2025, ProLitteris, Zurich; Photo © Atelier Joana Vasconcelos

Joana Vasconcelos: «Sono la versione femminista di Duchamp»

Al Museo Comunale d’Arte Moderna di Ascona oltre 50 opere dell’artista portoghese: «Il mio lavoro è “barocco”: sensoriale, immersivo, emotivo»

In occasione della mostra «Flowers of My Desire», ampia personale dedicata a Joana Vasconcelos (Lisbona, 1971) e ospitata al Museo Comunale d’Arte Moderna di Ascona dal 15 giugno al 12 ottobre, emerge il ritratto complesso di un’artista che, da oltre trent’anni, riformula il linguaggio visivo contemporaneo attraverso un uso radicale del quotidiano, convertito in dispositivo di narrazione poetica e politica. Curata da Mara Folini e Alberto Fiz (catalogo Allemandi), l’esposizione presenta oltre 50 opere tra installazioni, disegni e maquette, che rivelano una pratica capace di sovvertire le gerarchie tra arte e artigianato, sfera domestica e spazio pubblico. Il nostro dialogo con Joana Vasconcelos attraversa alcune delle dimensioni che ne guidano la ricerca.

Il cocuratore Alberto Fiz, descrive la sua mostra come un equilibrio tra «una componente spettacolare e una più intimista e problematica». Tra le immagini che utilizza, trovo evocativa la metafora di «una danza vorticosa intorno agli oggetti». Nelle sue opere, infatti, gli oggetti quotidiani sembrano attraversare una trasformazione simbolica, quasi rituale. Quanto è presente questa dimensione arcaica nella sua pratica? E che ruolo ricoprono gesto e manualità?
Mi considero una sorta di versione femminista di Duchamp, con più emozione, sensualità ed empatia. Gli oggetti quotidiani nelle mie opere non vengono semplicemente spostati: vengono rigenerati. Non li trasformo fisicamente, li lascio esistere così come sono, ma dono loro una nuova vita, una nuova identità. Un insieme di pentole può diventare una scarpa con il tacco alto, eppure ogni pentola resta comunque una pentola. È proprio questa trasformazione, questo slittamento di significato che mi interessa. Il gesto e la manualità sono fondamentali. Lavoro molto con tecniche tradizionali come l’uncinetto, il ricamo e il cucito, molte delle quali tramandate da generazioni di donne. Queste pratiche manuali non sono solo tecniche: sono forme di resistenza, depositi di memoria, strumenti di emancipazione. Credo che i processi industriali cancellino spesso questi strati intimi, mentre il fatto a mano restituisce una connessione più profonda e umana con l’oggetto e con chi lo osserva.

«Flowers of My Desire» è pensata per uno spazio raccolto, in dialogo con l’architettura e il paesaggio circostante. Com’è nato il rapporto con questo museo e con il territorio? Che cosa ha significato per lei lavorare in un ambiente così intimo e concentrato?
Sono stata davvero felice dell’invito da parte di Alberto e Mara! Ho sentito subito un legame con il museo e il suo contesto. Le dimensioni e l’atmosfera di Ascona mi hanno ispirata ad abbracciare l’intimità, qualcosa che non sempre è possibile nelle esposizioni di grande scala. Questa mostra mi ha permesso di instaurare un dialogo più personale e introspettivo con lo spazio e con il pubblico. Molte delle opere parlano a partire dalla sfera domestica, ma sono anche trasformate da essa. I lavori risuonano con l’architettura dello spazio, quasi come in una casa, ma una casa leggermente surreale, trasfigurata. Spero che i visitatori possano percepire questa intimità, sentendosi allo stesso tempo stimolati a riconsiderare la vita quotidiana e le tradizioni che la plasmano. 

Joana Vasconcelos, «Menu do Dia», 2001. © 2025, ProLitteris, Zurich; Photo © Dmf-Daniel Malhão Fotografia, Lisboa. Courtesy Atelier Joana Vasconcelos

Il quotidiano, la dimensione domestica e i materiali legati al mondo femminile, come cucito, ceramica e cucina, ricorrono spesso nelle sue opere. Dettagli che portiamo come memoria corporea tramandata diventano nei suoi lavori una presenza visiva potente e simbolica. Che ruolo hanno per lei questi elementi? Come esprimono un linguaggio intimo e collettivo, capace di stimolare anche una riflessione culturale e politica?
La dimensione domestica è centrale nella mia pratica, non solo come spazio, ma come campo di ricerca. Vedo la casa come un archivio simbolico di texture, gesti e rituali spesso associati alla femminilità. Per secoli, il sapere delle donne è stato escluso dal progresso tecnologico e confinato all’ambiente domestico, trasmesso oralmente e manualmente. Ritengo sia mio dovere onorare questa eredità e portarla nell’arte contemporanea. Questi materiali e gesti, che si tratti di uncinetto, piume o utensili da cucina, hanno il potere di evocare sia il personale sia l’universale. Parlano di memoria, identità, persino trauma. Invitano a riflettere sul ruolo della donna nella società e sul valore del lavoro «femminile». In questo senso, sì, il mio lavoro è politico. Non credo che abbiamo ancora raggiunto l’uguaglianza. Finché le donne non godranno degli stessi diritti umani degli uomini nella maggior parte del mondo, il mio lavoro resterà impegnato.

In molte sue opere, gli oggetti quotidiani sono ingranditi fino a diventare quasi surreali, creando spaesamento e meraviglia. Questo approccio ricorda artiste come Louise Bourgeois, Niki de Saint Phalle o Rachel Whiteread, che usano scala e simbolismo legati a corpo, memoria e identità. Che significato ha per lei questa trasformazione della scala? Serve a sovvertire la percezione abituale o riflette qualcosa di più profondo nel modo in cui guardiamo il mondo?
Ingrandire gli oggetti mi consente di creare quello che chiamo l’«effetto dei primi 30 secondi», quel momento di impatto visivo immediato che cattura l’attenzione. In un mondo sommerso dalle immagini, avere il potere di arrestare lo sguardo è essenziale. Una volta ottenuta quell’attenzione, posso invitare l’osservatore ad andare oltre, a scoprire i livelli concettuali dell’opera. Ma sì, c’è anche qualcosa di più profondo: questo gioco di scala serve a sfidare le percezioni, smontare le associazioni abituali e invocare l’inconscio. Quando un oggetto domestico diventa monumentale o inquietante, siamo costretti a guardarlo con occhi nuovi, a interrogarci sul suo ruolo, il suo simbolismo, il suo peso culturale. Si tratta di attribuire valore a ciò che spesso è trascurato, di riscrivere le gerarchie.

Alcune sue opere includono suoni o elementi sensoriali, creando una «voce» che parla allo spettatore. Questo rende l’opera uno spazio vivo che coinvolge vista, corpo ed emozione. Come nasce in lei l’idea di questa presenza corporea o vocale? Quale ruolo ha, secondo lei, l’esperienza multisensoriale nella relazione con l’osservatore?
Credo che l’arte debba essere vissuta con tutto il corpo, non solo con gli occhi. Le mie installazioni integrano spesso suono, luce, movimento e texture per avvolgere lo spettatore in un’esperienza totale. Penso sia anche per questo che alcune persone definiscono il mio lavoro «barocco»: è sensoriale, immersivo, emotivo. Conferire un corpo all’opera crea un’intimità che è al tempo stesso affettiva e critica. Apre uno spazio per l’emozione, per l’empatia, ma anche per la riflessione. Lo spettatore diventa parte integrante dell’opera: non più solo osservatore, ma partecipante. Questo legame, insieme fisico e simbolico, è fondamentale per come concepisco la forza dell’arte: coinvolgere, provocare, muovere.

Joana Vasconcelos, «Pantelmina #3», 2004. © 2025, ProLitteris, Zurich; Photo© Atelier Joana Vasconcelos

Giulia Moscheni, 16 giugno 2025 | © Riproduzione riservata

Joana Vasconcelos: «Sono la versione femminista di Duchamp» | Giulia Moscheni

Joana Vasconcelos: «Sono la versione femminista di Duchamp» | Giulia Moscheni