Con «secolo breve» è consuetudine indicare il Novecento, un secolo passato alla storia a causa dei numerosi accadimenti politici e, forse proprio come diretta conseguenza, per la fame di progresso che dagli albori della fotografia ha portato alla nascita di Internet, ad esempio. In campo artistico, la depressione diffusasi alla fine della Seconda guerra mondiale ha condotto gli artisti a indagare il proprio io più profondo e a mettere in discussione non solo il concetto di umanità, ma anche il senso stesso di fare arte.
Fu così che, tra Pop Art, Arte Povera, Minimalismo e Optical Art, si fecero strada le teorie di Joseph Kosuth (Toledo, Usa, 1945), massimo esponente dell’Arte Concettuale. Per celebrarne l’ottantesimo compleanno, la galleria Sprüth Magers raccoglie nella sede di Londra (fino al 15 marzo) sessant’anni del suo lavoro e rivive assieme a lui, passo dopo passo, tutte le risposte che è riuscito a ipotizzare nel corso della sua indagine sul linguaggio artistico.
Convinto che la società moderna sia frammentata e instabile, e pertanto priva di solide certezze, Kosuth decide di soffermarsi su quelle poche rimaste, apparentemente semplici, ponendo interrogativi che solo l’innocenza di un bambino riuscirebbe a formulare senza pregiudizi, come: qual è il significato del termine «porta»? La domanda che secondo lui l’arte si dovrebbe porre non è più pratica (vedi gli impressionisti alla ricerca di un modo per restituire ciò che avevano davanti agli occhi più immediato, nel senso di «non mediato») e non dovrebbe nemmeno più sentirsi al servizio dell’emotività (sulla scia dell’Espressionismo astratto), ma deve tornare alle origini delle cose, farsi strumento per (ri)trovare lo stupore anche negli oggetti più banali. Tornare a «The Question», come suggerisce il titolo della mostra e l’omonima opera del 2024 che recita «We come back, then, to the main question» («Noi torniamo, dunque, alla domanda principale», citazione del 1921 del filosofo inglese John McTaggart). In questo caso, il tempo oggettivo rappresentato dall’orologio diventa soggettivo per Kosuth che, come McTaggart, si è sempre posto di fronte al proprio pensiero, luogo dove si concepisce l’opera d’arte, con l’obiettivo di scomporlo per ricomporlo nella mente del pubblico.
Con «One and Three Doors» (1965) l’esposizione inaugura il percorso compiendo un salto indietro di sessant’anni e invita lo spettatore a passare attraverso il concetto di «porta» per entrare sin da subito in sintonia con il pensiero di Kosuth. La scelta di leggere qualcosa in triplice chiave è un espediente ricorrente nella pratica dell’artista: la porta fisica, affiancata dalla sua rappresentazione fotografica e dalla sua stessa definizione, fa sì che si crei un cortocircuito tale per cui si arriva a mettere in discussione il senso di realtà.
La messa in discussione di un oggetto raggiunge ulteriori sviluppi con l’utilizzo del neon, materiale malleabile con il quale è possibile comporre qualsiasi tipo di messaggio, affermazione o esclamazione. In mostra, «Seeing Reading [Cool White] (Large Version)» (1979) recita «This object, sentence, and work completes itself while what is read constructs what is seen» («Questo oggetto, frase, e opera completa sé stesso mentre quello che si legge costruisce ciò che è visto»), e esemplifica al meglio l’intento di Kosuth di dimostrare che il significato è fluido e dipende dal contesto in cui è collocato, sfidando gli assunti base della comunicazione. D’altronde, il neon è solo una sorgente luminosa.

Una veduta della mostra «The Question» di Joseph Kosuth da Sprüth Magers a Londra. Cortesia dell’artista e di Sprüth Magers. Foto: Ben Westoby