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Da sinistra a destra: «Crippled by the Need to Control/Blind Individuality» (1983), «In the Shadow of the Handgun» (1983) e «Pissing on Nature» (1984) di Judy Chicago durante l’esposizione al New Museum

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Da sinistra a destra: «Crippled by the Need to Control/Blind Individuality» (1983), «In the Shadow of the Handgun» (1983) e «Pissing on Nature» (1984) di Judy Chicago durante l’esposizione al New Museum

Judy Chicago: il mondo dell’arte non sa come e dove collocare la produzione femminile

In occasione di una sua ampia retrospettiva a New York, l’artista statunitense parla di un’autrice del XV secolo che l’ha ispirata, dello «scopo della vita» e del motivo per cui ritiene che il suo lavoro venga compreso correttamente solo ora

Torey Akers

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Judy Chicago, la madrina dell’arte femminista, sa bene come lavorare ai margini. Quando la sua installazione «The Dinner Party» fu presentata per la prima volta al pubblico nel 1979, la sua messa in scena teatrale e la sua concezione meticolosamente studiata (un «posto a tavola» figurativo per più di mille importanti figure storiche femminili) attirarono le derisioni dei critici maschi e la sua tournée iniziale fu cancellata. Mentre il mondo dell’arte tradizionale storceva il naso di fronte all’impresa di Judy Chicago, si stava formando un pubblico specificamente interessato. Dopo un inizio difficile, nei primi anni Ottanta «The Dinner Party» è stato oggetto di una tournée internazionale in 16 tappe, sostenuta da un’ondata di donazioni private e da un entusiasmo di fondo. Nel 2007, «The Dinner Party» è stata esposta in modo permanente al Brooklyn Museum di New York, un monumento contro la cancellazione delle donne dalla storia.

Judy Chicago ha trascorso tutta la sua carriera ad aspettare che i detentori del potere si mettessero al passo, producendo pazientemente lavori innovativi. Ora, all’età di 84 anni, è protagonista di una grande retrospettiva al New Museum di New York, «Judy Chicago: Herstory», che fino al 14 gennaio 2024 ripercorre i 60 anni di carriera dell’artista, dai primi esperimenti di Minimalismo alle esplorazioni degli anni Novanta sulla catastrofe ecologica e oltre.

La mostra scardina i confini tipici di un’indagine museale reimmaginando l’archivio femminista stesso; il quarto piano del museo ospita una mostra nella mostra, «City of Ladies», che riunisce opere di oltre 80 artiste, scrittrici e pensatrici, tra cui Simone de Beauvoir, Artemisia Gentileschi, Zora Neale Hurston e Frida Kahlo. Questo è il multiverso artistico di Chicago, una ricapitolazione femminista del tempo in cui la marginalità diventa la storia principale.

Da dove è nata l’idea della sezione «City of Ladies» allestita al quarto piano della mostra?
Prima di tutto, sono un’ammiratrice del curatore della mostra Massimiliano Gioni da molto tempo, da quando ha organizzato una mostra a Milano intitolata «La Grande Madre». È stata la prima grande mostra sul tema della nascita e della maternità nell’arte contemporanea. All’inizio degli anni Ottanta, quando lavoravo al Progetto Nascita, non riuscivo a trovare nell’arte contemporanea immagini su un tema apparentemente così universale come la nascita. Quando ho visto la mostra di Gioni, ho scoperto che c’erano molte opere di donne che risalivano ai surrealisti e ai dadaisti. Una delle cose che mi ha insegnato lavorare con Massimiliano a questa mostra è che il contributo delle donne è stato totalmente oscurato nel mondo dell’arte. Non solo nell’arte, ma anche in alcuni mestieri, nella scrittura femminile, nella musica femminile. Sono venuta a conoscenza di un paradigma culturale totalmente alternativo che risale al XV secolo: il concetto di «City of Ladies» (Città delle dame) deriva dal libro La città delle dame di Christine de Pizan, che fu la prima donna in Europa a mantenersi scrivendo. Il femminismo moderno non è iniziato nel XIX secolo o addirittura nel XVIII secolo con la rivendicazione dei diritti delle donne da parte di Mary Wollstonecraft. È iniziato con il libro di Christine de Pizan, nel quale costruiva una città mitologica popolata da 500 donne importanti, la maggior parte delle quali abbiamo dovuto ri-ricercare quando stavo realizzando «The Dinner Party». Massimiliano, per il suo approccio storico all’arte, ha voluto contestualizzare il mio lavoro in questa storia culturale e in questo paradigma alternativo incentrato sulla donna. Siamo stati tutti educati a pensare che il paradigma patriarcale che è stato considerato storia dell’arte sia la storia dell’arte. E le istituzioni moderne hanno cercato di capire come inserire le donne, gli artisti di colore e altri senza distinzione di genere all’interno di questo paradigma senza stravolgerlo. «City of Ladies» dimostra che esiste un paradigma completamente alternativo. È da questo che nasce il mio lavoro ed è per questo che il mio lavoro non è stato in grado di essere compreso o inserito nel paradigma patriarcale.
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Per quanto riguarda il mondo dell’arte contemporanea, pensa che le artiste stiano lavorando all’interno di un paradigma alternativo? È possibile nell’attuale panorama istituzionale?
La maggior parte delle persone non sa che esiste un’alternativa. Non mi fraintenda, tutte queste mostre come «Inside Other Spaces: Environments by Women Artists 1956-76» alla Haus Der Kunst di Monaco (fino al 10 marzo 2024 ) o l’attuale rassegna al Nasher Sculpture Center, «Groundswell: Women of Land Art» di Dallas (fino al 7 gennaio 2024), sono fantastiche. Ma dobbiamo arrivare a capire che ci sono altre lenti attraverso le quali guardare l’arte contemporanea. Le faccio un esempio: Hilma af Klint. La grande mostra al Guggenheim del 2018 e il modo in cui è stata accolta («questa simpatica donna svedese è tutta presa dalla spiritualità, non è pittoresco?») racchiudono perfettamente la totale mancanza di conoscenza di questo paradigma culturale alternativo. Le donne e la spiritualità risalgono a secoli fa. Infatti, nella «City of Ladies» è presente un’opera di Hildegard von Bingen, una mistica del XII secolo. Se ci pensate, c’è la teosofia, ci sono gli Shakers (gruppo religioso che si trasferì in America dalla città inglese di Manchester nel 1774 specializzato nella produzione artigianale di oggetti di design come mobili, strutture di arredamento, contenitori, cesti, tessuti e macchine per tessitura, Ndr), ci sono tutte le donne che sono state in prima linea nei movimenti spirituali. Il mondo dell’arte non sa come e dove collocare la produzione femminile. Ho parlato di questa idea a diverse giovani donne negli ultimi due mesi e, all’inizio, l’idea sembrava loro molto strana. Ma poi, quando ci pensano, succede qualcosa e dicono: «Beh, sì, ha molto senso». È solo che non è mai stata presentata da una grande istituzione.
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Nel suo lavoro è sempre emerso il rapporto tra bellezza e violenza. Potrebbe parlarne nel contesto di questo progetto più ampio di costruzione di una storia alternativa?
Ho un’idea molto precisa della funzione della bellezza nell’arte. Credo che la funzione della bellezza nell’arte sia quella di aiutarci a guardare aspetti della realtà che sarebbero troppo dolorosi da affrontare se non fossero presentati in modo bello. La prima volta che ho pensato molto a questo aspetto è stato quando Donald Woodman e io stavamo lavorando al Progetto Olocausto. Come potevamo creare immagini su un periodo storico così terribile che chiunque avrebbe guardato? Questo aspetto è stato molto importante anche nel mio ultimo grande progetto, «The End: A Meditation on Death and Extinction». È stato difficile confrontarsi con la mia mortalità. Ma molto, molto più difficile è stata la sezione sull’estinzione, per la quale ho trascorso due anni nel mio studio a confrontarmi con ciò che stiamo facendo alle altre creature del pianeta e con quale estensione lo stiamo facendo. Ho dovuto usare tutta la mia abilità per trasformare questa realtà assolutamente dolorosa in immagini. È uno dei motivi per cui le ho fatte piccole e intime, perché altrimenti sarebbero state insopportabili da guardare. Questo è uno degli aspetti più interessanti della retrospettiva al De Young Museum di San Francisco nel 2021, in cui la curatrice, Claudia Schmuckli, ha collocato i miei lavori più recenti per primi e quelli più noti lungo il percorso della mostra, invertendo la cronologia. Continuavo a scherzare sul fatto che la gente avrebbe attraversato tutte queste sale di soggetti difficili e sarebbe andata a vedere i miei primi lavori per tirare un sospiro di sollievo. Ma no, non è andata così. In realtà, c’era più gente nelle prime sale che in quelle successive. È così che la funzione della bellezza, come la intendo io, si è tradotta in quel lavoro.

Quando realizza un’opera così devastante, che cosa spera che ne tragga il visitatore? Sta cercando di attuare un cambiamento o è un modo troppo semplice di vedere la cosa?
Mio padre mi ha insegnato che lo scopo della vita è dare un contributo. Ed è quello che ho cercato di fare. Ho cercato di dare un contributo creando arte che potesse educare, ispirare e responsabilizzare gli spettatori. Se poi si guarda alla mia carriera, nessuna buona azione rimane impunita.

Ha ancora la sensazione che oggi il suo lavoro sia emarginato o ignorato negli spazi istituzionali?
Sì e no. Ci sono molte istituzioni importanti in cui il mio lavoro non è presente. Come il MoMA di New York. Fino a poco tempo fa, il Whitney; la situazione è cambiata da poco. Potrei elencare decine di grandi istituzioni che non possiedono le mie opere. A livello istituzionale, questo non è cambiato. Tuttavia, ora ci sono diverse generazioni di curatori, sia uomini sia donne, che hanno un punto di vista completamente diverso e che comprendono il mio lavoro. Credo che il mio lavoro stia per essere compreso a un livello adeguato. La scrittrice e poetessa Quinn Latimer ha scritto un saggio per il catalogo della mostra in cui racconta di come sua madre l’abbia portata a vedere «The Dinner Party» quando era un’adolescente, quando ancora provava una tremenda vergogna per il suo corpo e non capiva ancora le barriere che il suo genere le avrebbe imposto. Solo ora, naturalmente, con l’esperienza, è riuscita a guardare indietro e a rendersi conto di questa vergogna. Credo sia la prima volta che leggo di una scrittrice che riconosce alcuni dei suoi sentimenti di paura e ripugnanza quando vede «The Dinner Party». Ci sono voluti 45 anni prima che una scrittrice riconoscesse questa componente che ha contribuito a una scrittura molto ostile da parte delle donne, che all’epoca mi ha davvero ferito. Ho pensato che si trattasse di un enorme cambiamento generazionale.

Torey Akers, 03 novembre 2023 | © Riproduzione riservata

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