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L’arte di Perniola si espande e poi esplode

Massimo Melotti

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Mario Perniola è uno dei più acuti indagatori dell’evoluzione dell’arte contemporanea sul versante filosofico. Docente di estetica di fama internazionale, a differenza di molti colleghi, riesce nei suoi lavori, con linguaggio chiaro, a sondare le logiche e le politiche dell’arte senza lasciarsi condizionare da ingessature accademiche.
L’arte espansa, edito da Einaudi, già nel titolo entra direttamente nel merito ponendo la questione fondamentale della nuova ontologia dell’arte, con l’inquietante corollario che oggi
«qualunque cosa può essere trasformata in arte». Dal che si deduce che ormai siamo alla destabilizzazione del sistema dell’arte se non alla sua implosione. Quella che l’autore definisce la svolta «fringe». E, a sostegno di questa tesi, Perniola traccia un percorso che parte da quella che possiamo definire la strategia di marketing applicata all’arte.
Punto focale è la Saatchi Gallery che, a metà degli anni Ottanta, sconvolge il sistema dell’arte introducendo dinamiche di promozione e di marketing. Il successo sulla scena mondiale di artisti come Damien Hirst mette in discussione, di fatto, nella logica di sistema il ruolo di istituzioni come la Tate Gallery, che sino a quel momento erano considerate le uniche preposte ad avallare il processo di affermazione dell’artista e di legittimazione dell’opera. Saatchi lancia una nuova generazione di artisti e successivamente rivoluziona il sistema di selezione aprendolo, grazie a internet, a una platea  sempre più vasta.
Ma ancora più destabilizzante per il sistema dell’arte secondo l’autore è la Biennale di Venezia curata da Massimiliano Gioni che con il suo Palazzo Enciclopedico nel 2013 realizzava una mostra in cui la presenza di artisti sembrerebbe marginale a fronte della presenza di opere di personaggi sicuramente rilevanti ma che con il «mondo dell’arte» hanno poco a che fare. Insomma l’arte, con l’applicazione di un paradigma enciclopedico può essere fatta da tutti e ogni cosa, anche di poco valore, anche marginale, fringe appunto, può divenire opera d’arte.
Qui il passaggio diviene delicato. Chi può infatti legittimare che una cosa qualsiasi sia opera d’arte e con quale autorevolezza? La questione non è di poco conto. Oggi nell’età della globalizzazione il problema si è ulteriormente complicato essendo l’opera d’arte non più influenzata solo da determinati elementi ma soggetta a influenze che le tecnologie della comunicazione hanno decuplicato. L’arte si è appunto «espansa» dando nuove opportunità a chi la vuole praticare, ma nel farlo ha perso la legittimazione che le conferiva il sistema. Quanto sia stata dirompente la Biennale di Gioni, non solo per le strategie dell’arte ma anche per la sua stessa dimensione ontologica, lo dimostra, secondo Perniola, la successiva edizione della rassegna veneziana curata da Okwui Enwezor, nel 2015, vista come una risposta alla destabilizzazione e delegittimazione dell’arte che la lettura enciclopedica andava suggerendo.
Alla svolta «fringe» si oppone una svolta «accademica» con una rassegna in cui alla domanda «chi è l’artista?» si risponde che è colui che ha compiuto studi adeguati e che ha conseguito un riconoscimento mondiale seguendo la trafila di borse di studio, premi, mostre sino a riuscire a far entrare le proprie opere in prestigiose collezioni museali. Ma questa risposta richiede anche l’individuazione di chi siano i grandi maestri e di un canone dell’arte del XXI secolo a cui rifarsi. Qui la faccenda si complica. Perniola ne sottolinea il paradosso: «In Occidente il compito delle accademie e delle università sarebbe quello di fornire le armi concettuali e tecniche per distruggerli».


L’arte espansa, di Mario Perniola, 112 pp., Einaudi, Torino 2015, € 11,00

Massimo Melotti, 09 dicembre 2015 | © Riproduzione riservata

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