Gianluigi Ricuperati
Leggi i suoi articoliNaturalmente Ernst non ha mai scritto un testo del genere sul libro di favole nere scritto dalla compagna Leonora Carrington (con cui ebbe una tormentata relazione dal 1937 al 1940, iniziata quando lui aveva 41 anni e lei 19). Ma dopo averlo riletto, confermando la prima impressione che ebbi tanti anni fa, ovvero che nessun genitore leggerebbe le storie del Latte dei Sogni ai propri figli a meno che non siano già adulti, ho capito che questo era per me il modo più interessante di ragionare su questo volume, alla luce della notorietà improvvisa regalatagli dall’appropriazione culturale messa in atto dalla Biennale di Venezia.
A tal proposito una modesta proposta: visto che sempre più spesso curatrici e curatori attingono dalla letteratura per costruire le architravi concettuali di mostre, fiere quadriennali e quant’altro, non sarebbe ora di lanciare una Biennale della Letteratura, proprio a Venezia, in modo che questa forma d’arte così cruciale e saccheggiata possa finalmente affiancare le altrettanto importanti rassegne su cinema, musica, arti visive, architettura e danza?
A casa, prima della separazione, c’erano momenti di pace. Ci sedevamo a tavola, per volta quieti, sorridenti, in armoniosa collana di intenti e di umori. Sulla tovaglia c’erano piatti di verdure ancora urlanti per esser state strappate alla terra, che da prima della nascita del Mostro Incantevole coltivavamo noi. Anche se nessuno avrebbe potuto dirlo guardandoci in altre circostanze al lavoro e in città, eravamo persone molto semplici e amavamo piaceri pratici.
Profumi del cibo in cottura, sempre diversi da quelli del cibo mangiato. Facevamo anche il pane. Uno di noi due, io, era così nervoso che le grinze del pane portavano segni d’impronte digitali urgenti, come le unghie sulle spalle quando Il mostro rischiava di cadere e si aggrappava. Il pane, come l’acqua, riflette l’urto energetico che ha invaso la stanza quando è stato fatto.
In quei rari momenti il paesaggio della cucina si componeva per isole di colori distinte, come un’illustrazione di una rivista americana, tutto chiaro, limpido, netto, privo di sovrapposizioni. La bottiglia di vetro con il suo verde pallido. L’incartamento del parmigiano con il suo trasparente opaco che rifletteva l’ocra denso e giallo tenue di quella roccia di latte addomesticato. C’era un barattolino per le olive taggiasche schiacciate, immerse nell’olio, una giungla pastosa di agrodolce succo torbido denso, la nota restituita dallo strumento umano durante un breve passaggio sulla terra, in Italia, in Liguria. Eravamo convinti che ogni cosa fosse importante, in quella cucina, in quella casa, in quella famiglia. Il resto del mondo sembrava diretto verso un’accelerata catastrofe, ma noi proteggevamo i nostri piaceri e Il Mostro Inca Incantevole come prima e unica missione della nostra vita.
Certe volte, come in quelle sere, a tavola, in cucina, immersi e distanti dai colori del presente delle nostre vite, sembravamo i due esseri più fortunati del cosmo. Questo non ci rendeva meno chiassosi nei litigi. Uno dei due diceva «vaffanculo», l’altro alzava il dito medio come un ponte levatoio davanti al naso del nemico appena bagnato dal destino avverso. Eravamo semplicemente due isterici innamorati?
La sera tardi, dopo aver fatto l’amore o dopo non aver fatto l’amore, uno di noi due crollava e l’altro lo seguiva a breve distanza, esausti per tutte quelle occasioni sprecate, per tutto il bene messo in circolo, per l’inutile mole di incomprensioni, per la voglia di stare vicini e la necessità di stare insieme, per la difficoltà dei caratteri e l’improvvisa apertura dei polmoni quando le cose andavano alla perfezione, come in quella sera a tavola, quando la nostra famiglia si allontanava dalla fine e diventava un disegno ben temperato. Il resto del tempo sputavamo tossine senza sosta, perché sembrava così insano a tutti, tirar su una famiglia in un tempo senza stelle fisse e noi ci eravamo costruiti qualcosa, sotto la volta di quella grande mancanza.
Dopo la separazione, negli istanti di ottimismo, credevamo davvero che Il Mostro Incantevole ce l’avrebbe fatta, su un pianeta senza di noi, o senza di noi sotto lo stesso tetto, o sotto qualunque tetto, o sopra qualunque pianeta.
BIENNALE DI VENEZIA
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