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Lavinia Trivulzio
Leggi i suoi articoliCi sono città che portano nelle proprie pietre la memoria di secoli di incontri, commerci e visioni. Bukhara, antica perla della Via della Seta, è una di queste. Oggi, a distanza di secoli dai mercanti e dai pellegrini che ne animavano le madrase e i caravanserragli, la città scrive una nuova pagina della sua storia: dal 5 settembre al 20 novembre ospita la prima Biennale di Bukhara, un evento che segna l’ingresso ufficiale dell’Uzbekistan sulla mappa dell’arte contemporanea internazionale. Con oltre 200 artisti da 39 paesi e sei continenti e più di 70 progetti site-specific distribuiti nei luoghi più iconici del centro storico, la Bukhara Biennial non è soltanto la più grande manifestazione culturale mai organizzata in Asia Centrale, ma anche un esperimento visionario che intreccia memoria e futuro, artigianato tradizionale e linguaggi globali, spiritualità e quotidianità. Il titolo della prima edizione – Recipes for Broken Hearts – è già una dichiarazione d’intenti: l’arte come pratica di cura, di guarigione collettiva, di riconnessione. La curatela è affidata a Diana Campbell, figura di rilievo internazionale che ha guidato progetti dal Dhaka Art Summit alle collaborazioni con la Delfina Foundation di Londra. A commissionare l’iniziativa è Gayane Umerova, presidente della Uzbekistan Art and Culture Development Foundation (ACDF), che descrive la biennale come “un’eredità destinata a restare, capace di restituire a Bukhara il suo ruolo di crocevia culturale e proiettarlo nel futuro”. Il cuore del progetto è la collaborazione tra artisti contemporanei e maestri artigiani uzbeki, in un dialogo che ribalta le gerarchie: non più l’artista “genio solitario” ma un lavoro corale che riconosce il valore della trasmissione dei saperi. Camminando tra le vie del centro storico, il visitatore incontra opere che si intrecciano con l’architettura e la memoria dei luoghi:
Antony Gormley trasforma la moschea di Khoja Kalon in un labirinto di oltre cento corpi scultorei alti due volte l’uomo, modellati con antiche tecniche di lavorazione del fango. Delcy Morelos avvolge le colonne del sito in una ragnatela architettonica impregnata di spezie, un’esperienza sensoriale che richiama la vocazione di Bukhara come snodo del commercio globale. Il duo Hylozoic/Desires realizza un’immensa tappezzeria ikat, lunga chilometri, che racconta la lenta scomparsa del lago d’Aral attraverso i suoi colori cangianti, dal blu profondo al biancastro tossico del sale. L’artista uzbeka Oyjon Khayrullaeva inserisce organi in mosaico nelle mura di sei edifici storici, evocando le antiche ricette di guarigione della sua famiglia. Subodh Gupta, tra i protagonisti dell’arte indiana, invita a condividere pasti collettivi sotto una cupola monumentale di smalto: un gesto semplice, ma dirompente, che trasforma il banchetto in performance artistica e rito di comunità. Accanto a questi grandi nomi, emergono giovani artisti uzbeki come Aziza Kadyri, che intreccia ricami suzani e intelligenza artificiale in un’opera che riflette sul rapporto tra artigianato e tecnologia, o Laila Gohar, che costruisce una casa interamente fatta di zucchero navat, in collaborazione con un maestro locale. La vera protagonista, però, resta la città. Madrase, caravanserragli e moschee del XVIII e XIX secolo – restaurati dall’architetto Wael Al Awar – diventano spazi espositivi, laboratori e luoghi di incontro. Gli stessi edifici che un tempo accoglievano mercanti provenienti dall’India, dalla Persia o dalla Cina oggi ospitano installazioni, performance e workshop.
Il progetto non è isolato: fa parte della creazione di un nuovo Distretto Culturale di Bukhara, promosso dalla ACDF, che vuole trasformare il patrimonio architettonico della città in un motore di sviluppo culturale e turistico di lungo periodo. La Biennale non si limita alle arti visive. Gli elementi più attesi: Il Café Oshqozon, ristorante della biennale, con menu ideati da chef internazionali e uzbeki che reinterpretano antiche ricette di guarigione. Un simposio internazionale sull’Asia Centrale e una scuola curatoriale in collaborazione con la Delfina Foundation. Il Rice Cultures Festival, che chiuderà la biennale celebrando le tradizioni del riso nel mondo, dal palov uzbeko alla paella spagnola, dal jollof africano al pulao mediorientale. La dimensione culinaria diventa parte integrante del percorso: come spiega la curatrice Diana Campbell, “abbiamo voluto trasformare la biennale in un corpo vivente, nutrito da esperienze condivise”. Non è difficile, per un osservatore italiano, pensare alla Biennale di Venezia, la madre di tutte le esposizioni d’arte contemporanea. Ma se Venezia è il laboratorio per eccellenza delle arti visive globali, Bukhara punta a qualcosa di diverso: radicare l’arte contemporanea nelle pratiche comunitarie e artigiane, trasformando un evento internazionale in un processo di crescita locale. È una biennale meno “spettacolare” e più “immersiva”, che non punta solo ad attirare il turismo culturale ma a lasciare infrastrutture, formazione e nuove reti. Con oltre la metà della popolazione sotto i trent’anni, l’Uzbekistan guarda alla cultura come strumento di futuro. La Biennale di Bukhara è al tempo stesso un gesto identitario e politico: un modo per riscoprire la vocazione storica della città come luogo di scambio e per inserirsi a pieno titolo nella geografia culturale globale. L’ingresso è libero. Le opere, disseminate lungo un percorso che segue il tracciato dell’antico canale Shakhrud, sono lì per accogliere non solo esperti e collezionisti, ma anche cittadini e viaggiatori. Un tempo Bukhara era una tappa obbligata per mercanti e pellegrini; oggi, con la sua prima biennale, torna ad essere un luogo in cui il mondo si incontra.