Antonio Forcellino
Leggi i suoi articoliNessuno più degli abitanti di Città della Pieve sapeva quanto Piero di Betto avesse faticato per diventare il Perugino. E così, quando i priori della confraternita dei Bianchi, un edificio men che modesto, gli proposero di dipingere per loro un’«Adorazione dei Magi» Piero li accontentò. Realizzò per i suoi compaesani uno dei suoi dipinti più belli, libero dalle aspettative dei committenti facoltosi che aveva servito, si regalò una poesia in forma di colore.
Lo schema dell’Adorazione semplificato in maniera quasi eccessiva, diventa il presupposto per esaltare la sostanza delle cose e dimostra che non bisogna essere nella città di marmo dei papi o nella città d’oro dei banchieri per realizzare miracoli di bellezza. Tra le colline della Pieve si potevano fare miracoli più che a Roma e Firenze.
La semplicità è la chiave compositiva dell’affresco. Al centro una capanna che isola ed esalta la scena dell’Adorazione con Maria seduta con il Bambino sulle ginocchia. La capanna, fatta di tronchi che hanno la chiarezza formale di colonne con tanto di ordine architettonico, è posta in prospettiva frontale, con il tetto in fuga, quasi parallelo al digradare delle colline, e questo esalta la profondità del paesaggio e della costruzione rustica dando un equilibrio perfetto a entrambi. Sotto la capanna Maria è isolata, i Magi sono rispettosamente inginocchiati a qualche braccio di distanza, ma inaspettatamente anche Giuseppe, in piedi, si tiene discosto, quasi fosse consapevole di non entrarci granché in quel mistero che si celebra sotto i suoi occhi.
La bellezza di Maria e del bambino li rende simili, divini e regali. Il racconto è già risolto nella perfezione dell’organizzazione spaziale e nella dolcezza dei volti dei due protagonisti centrali. I resto è un virtuoso descrivere stoffe e pose aggraziate lungo le quali l’occhio spazia solo per poi tornare al centro, ai visi di Maria e del Bambino, da dove presto si sposta per vedere che cosa si muove in quell’orizzonte che va lentamente allontanandosi grazie al verde che sfuma nell’azzurro.
Un corteo con dromedari evoca la cavalcata dei Magi e più indietro alcuni pastori danzano come aveva fatto Piero da ragazzo al suono delle zampogne, sotto un cielo luminoso come uno smalto. Sullo sfondo il lago Trasimeno e gli alberi con i grumi scuri delle foglie che si aprono come pennacchi solo per mettere ancora più in evidenza il traslucido cielo appena azzurrato. Lo schema così semplice sembra contenere tutto quello che è essenziale al racconto.
C’è una grazia della natura e c’è una grazia della figura umana e in tutte e due, Piero eccelle componendole in questo affresco. La pittura tecnicamente è perfetta. I colori sono accostati sull’intonaco senza mai contrasti violenti e le pennellate accarezzano le linee dei contorni con una visibile morbidezza. I tocchi d’oro esaltano i bordi delle sete, i capelli e le foglie d’erba e le colline dell’Umbria diventano il paese incantato del sogno. Le ombre sfumano inseguendo la nebbiosa inconsistenza di Leonardo da Vinci, il pittore che meno di venti anni prima gli era stato accostato come pari «d’amore e di virtù»
L'autore è restauratore e scrittore
LA NATIVITÀ NELL'ARTE
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